La prima volta in cui mi è capitato di ascoltare una canzone di Dente, ormai parecchi anni fa, si trattava di Canzone di non amore, ad una sincera risata sono seguiti diversi replay e poi la discografia completa. Non ho seguito Dente con il delirio integralista della fan sfegatata, ho avuto simili disposizioni d’animo nei confronti di altri cantanti, soprattutto in passato e forse per ragioni di età, motivo per il quale non ho mai indagato con eccessiva attenzione sulla sua biografia, sui cambi d’etichetta (ergo sui passaggi dall’editoria indipendente alle grosse case discografiche), ho letto solo distrattamente il suo cimento favolistico (Favole per bambini molto stanchi), ma ciò nonostante, da quel primo incontro, non posso nascondere di averlo ascoltato con la massima attenzione. Il cantautore, allo stato odierno, ha appena terminato un tour in collaborazione con Catalano e si appresta a lavorare al suo prossimo disco.
In quasi tutti i testi di Dente, un’ironia acutissima si finge dapprima deliziosa campitura, per tendere, immediatamente dopo, ad un prepotente balzo in avanti, staccandosi nettamente dal corpo del testo, fino a diventare una figura ben individuabile, o meglio la principale protagonista.
Il mio interesse per Dente è nato dal modo brioso in cui il cantautore sovrappone i registri linguistici e principalmente dalle torsioni a cui sottopone gli aspetti formali e contenutistici del linguaggio. Considerato che ascolto con eguale entusiasmo generi fra loro molto diversi, digiuna di competenze specifiche nel settore musicale, queste brevi riflessioni sono lontane da qualsivoglia forma di furia catalogatrice, che lo designerebbe come cantautore indie (identificazione che pare, fra l’altro, faccia infuriare lo stesso Dente). Cosa, poi, sia l’indie è una sorta di mistero! Di primo acchito appare come una parola-contenitore che cancella con violenza milioni di sfumature, contenendo al suo interno specie fra loro eterogenee. Tuttavia è nondimeno possibile riconoscere con facilità gli esponenti dell’indie, in virtù di una certa aria di famiglia, che ci spingerebbe, dunque, a credere che l’indie esista realmente e che noi tutti ne abbiamo una qualche forma di coscienza, sebbene poco esplicabile.
Ricordo che Derrida protestava contro chi definiva le complicazioni linguistiche del suo stile di scrittura giochi di parole, perché erano piuttosto fuochi di parole. Ebbene, senza volere in alcun modo accostare somme operazioni decostruttive alle canzoni di Giuseppe Peveri, “per brevità Dente”, mi sembra, ad ogni modo un buon assunto da cui muovere le basi per fare una breve riflessione sulla sua produzione artistica.
Asseconderei per ciò stesso la tentazione di individuare nei versi di Dente non tanto dei giochi linguistici quanto dei fuochi linguistici, condensabili nell’immagine della performance fra le Twin Towers del noto funambolo Philippe Petit. Il dubbio riguarda cosa sia teso in bilico sulla fune: il significante, il significato o la nostra generazione, quella che secondo Dente “non esiste, è quasi un’invenzione, è poco più di un nome” (Noi e il mattino).
Come a dire che, indipendentemente dal sapiente uso degli effetti stranianti, delle ambiguità volute nell’uso ricercato di ogni termine, ci sia in ballo la narrazione segreta di una generazione che resiste, e non può che resistere all’interno di uno scarto, non tanto quello dell’ironia sic et simpliciter, quanto quello dell’essere altrimenti da come si è, grazie alla via additata dall’ironia stessa.
Una scrittura così accattivante dispone della parola per costruire un modo di essere ai margini di una realtà angusta, ove il coesistere di privazione ed eccesso cristallizza nell’insensatezza la tensione desiderativa. Il rovescio del discorso, il luogo in cui mettersi al riparo è proprio quello di un altro dire, di un nuovo “disordine” della parola che ha la grazia di stimolare l’immaginazione, indugiare su più pertinenze possibili, rifiutare, attraverso il gioco, nel più nobile dei suoi significati (quello degli studi estetologici), il sistema dell’unico.
La tecnica della costante inversione di senso è stata recepita da alcuni come banale virtuosismo, noioso esercizio di stile, accompagnato fra l’altro da un certo conservatorismo musicale, eppure io sono convinta che si tratti di un lavoro non convenzionale (in parte rintracciabile nei Calcutta) e che corrisponda alla possibilità di ricostruire, attraverso la parola, un’esperienza nuova.
Non mi soffermerò su semi-paralogismi, quali “a me piace lei e lei piace a me” (A me piace lei); sul colpo di teatro della canzone Coniugati passeggiare, al cui interno il verbo “passeggiare” è coniugato in uno spumeggiante “io passeggio, tu passeggi, egli passeggia… insieme a te!”; o ancora sul punto da cui siamo partiti, il disco rotto di Canzone di non amore, in cui si ripete allo sfinimento “ti prego torna, ti prego torna, ti prego torna”, sino alla graffiante e lapidaria conclusione, “da dove sei venuta!”.
Dente è anche il cantautore di ballate tristi e delicatissime, canzoni d’amore inserite, però, nei moti imprevedibili del suo strutturare l’altro modo di dire. Il sentimento è descritto in una vertigine, “sento che non peso quasi più” (Saldati), evocatrice dei voli chagalliani, di quella garbata assenza di peso che fa il paio con una scelta non soltanto di poetica: salvaguardare una leggerezza, persino melanconica, in un mondo laddove il materialismo genera disincanto, espresso paradigmaticamente in Cosa devo fare.
Ed ecco che all’amore che chiede “ho una gran voglia di sentirti lontano e do ai miei desideri una mano, perché so che tu non vuoi ridere più”, Dente fa seguire una preghiera: “almeno qui fammi vincere, non mi importa la verità, per carità o per amore spiegami come si fa a fare di un bisogno solo un desiderio” (Oceano). In effetti molto più della verità, in realtà complesse e reticolari, conta esclusivamente il distacco salvifico della consueta ironia, altalenante fra possibile e reale: “vieni a vivere come me, vieni a vivere come me, vieni a vivere come me, com’è che non ti muovi?! Come è possibile?!” (Vieni a vivere).
Chiuderei queste riflessioni con un cenno a Rette Parallele, testo che più di tutti mi pare esprima le peculiarità di un dire altro, nel quale la disperazione amorosa fa ginnastica con similitudini quotidiane, al punto da diventare surreali. La scoperta non comunicabilità fra i due amanti, a metà fra quelli a volto coperto di Magritte e quelli dell’impacciata prossimità di De Chirico, si struttura in immagini icastiche, come semafori, vetri elettrici e campi magnetici. “Se noi fossimo occhi strabici, io sarei di fianco a te: quello che guardo io non vedi tu, quello che non vedo io lo guardi tu. […] Se noi fossimo dei petali, io sarei dopo di te: quando sono m’ama io sei non m’ama tu, quando sono non m’ama io sei m’ama tu. Io sono il lungo inverno e tu la bella estate, siamo rette parallele”.
Il dolore di un non incontro, perpetuato e segnalato dalla forma ridondante delle strofe, non si smorza affatto nello scherzo colto, anzi vi trova la sua dimora ideale: abbiamo a che fare con uno slittamento rappresentativo che, per certi versi, amplifica la pena ma, per altri, si manifesta come forza. È lo sprigionarsi di una potenza in uno spazio esteso e non del tutto localizzabile, plaga fra due rette parallele in cui è possibile l’originalità di un altro dire.
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