Hill House è una magione che sorge minacciosa in mezzo alla campagna americana, una dimora orrorifica in cui nulla può conservarsi sano. Hill House è la protagonista principale del più noto romanzo di Shirley Jackson e della serie tv di Mike Flanagan, uscita poco meno di un mese fa su Netflix. Ma non si tratta soltanto di mattoni, parola scritta o girato digitale: Hill House è una presenza a se stante, un punto cruciale, uno snodo.
Il romanzo L’incubo di Hill House di Shirley Jackson (edito in Italia nella bellissima edizione Adelphi) è considerato, a ragione, un capolavoro della narrativa horror. Come tutti i capolavori, la storia travalica i confini stessi del suo genere, esplorando ben altro che semplici manifestazioni di poltergeist e scavando a fondo nell’animo dei protagonisti che mette in campo. L’opera viene spesso accostata ad un’altra pietra miliare del racconto di fantasmi: Il giro di vite di Henry James, con il quale condivide la profonda raffinatezza stilistica e la meravigliosa ambiguità. Entrambi gli autori preferiscono infatti disseminare le loro storie di indizi, tracce, segni, consegnando al lettore il gratificante (e paradossalmente frustrante al contempo) compito di costruirsi da solo il finale, in un continuo e spiazzante capovolgimento delle prospettive.

La trama del romanzo di Shirley Jackson è, a una lettura superficiale, molto semplice: quattro persone si recano in una casa che si presume sia infestata e qui divengono vittime di inquietanti manifestazioni soprannaturali, fino ad un finale circolare di struggente bellezza, che ne svela la natura profondamente complessa. La grandezza dell’autrice non sta solo nell’aver congegnato un intreccio dal meccanismo perfetto ma anche nell’avergli permesso di funzionare senza ricorrere ai cliché più inflazionati del genere. Non vi è, ne L’incubo di Hill House, una singola goccia di sangue, non una descrizione ripugnante, non un’epifania paranormale esplicita. Stephen King, uno dei più grandi estimatori della Jackson, le dedica il suo libro L’incendiaria con queste parole: «A Shirley Jackson, che non ha mai avuto bisogno di alzare la voce». È proprio in questa sua quieta apparenza che il romanzo cova tutto il suo potenziale inquietante, in un crescendo lento e implacabile di terrore che sopraggiunge inatteso proprio perché, a ben guardare, a Hill House non sta succedendo niente, eppure quel che accade è sufficiente a far accapponare la pelle del lettore e a mandarlo a letto un po’ meno tranquillo.
La serie tv, prodotta da Netflix e diretta da Mike Flanagan, già autore dell’ottima trasposizione del kinghiano Il gioco di Gerald, eredita l’atmosfera del romanzo senza però appropriarsi della trama, che sceglie di riscrivere completamente. Del racconto permangono i nomi dei personaggi e parte della caratterizzazione, nonché innumerevoli dettagli, citazioni pedisseque (su tutte il bellissimo incipit) e particolari, ma si trasformano totalmente le dinamiche. Dove Shirley Jackson aveva posizionato quattro estranei, Mike Flanagan dispone la famiglia Crain, composta da cinque fratelli e i loro genitori. Tutta la prima parte si concentra proprio sui fratelli, che hanno trascorso un breve periodo della loro infanzia a Hill House finchè un evento devastante non li ha costretti a fuggire guidati dal padre, abbandonando la madre tra le mura della sinistra abitazione, dove troverà la morte. Le dieci puntate oscillano a un ritmo serrato ma mai frenetico tra il passato e il presente, tra ottime interpretazioni tanto del cast adulto quanto di una sorprendente cinquina di credibilissimi piccoli attori. The Haunting of Hill House è il caso fortunatissimo in cui la rielaborazione del materiale sorgente, il distacco notevole dalla sua fonte scritta non fa sì che questa venga rimpianta: con personaggi e vicende del tutto differenti, la Hill House di Mike Flanagan è la Hill House di Shirley Jackson pur essendo qualcosa d’altro. La sua crudele malinconia, la profonda ineluttabilità traspaiono in ogni ostile sospiro della casa.
Certo, a differenza del romanzo, la presenza del fantasmatico è più incisiva e più esplicita, e la paura che Flanagan inocula nello spettatore è senza dubbio più canonica. Non poche scene mi hanno spaventato come l’horror più recente non faceva da tempo, in una bilanciatissima gestione di jump scares, movimenti di camera esasperatamente lenti e magistrali scelte di regia (ad esempio il geniale finale del quinto episodio). Il terrore che serpeggia tra le mura di Hill House può essere accostato alla celeberrima definizione di Unheimliche, il perturbante, freudiano: «quella sorta di spaventoso che risale a quanto ci è noto da lungo tempo, a ciò che ci è familiare»[1].
Hill House è una casa ma allo stesso tempo non è un Heim (let: “focolare domestico”). È una casa, ma allo stesso tempo molto vi resta celato, per rivelarsi soltanto quando è troppo tardi. In essa vi è una familiarità, ma è una familiarità negata: perturbante non è infatti il totalmente altro ma è qualcosa di cui si ha consapevolezza, senza possederne però un’autentica conoscenza. I fratelli Crain sembrano rappresentare proprio i diversi gradi di questa consapevolezza, dal rifiuto all’accettazione, in una scala che ricorda quella dell’elaborazione del lutto, come teorizzato da un articolo di Buzzfeed.
Guardando The Haunting of Hill House non siamo di fronte soltanto all’ennesima storia di una casa infestata. Assistiamo attoniti e impotenti a una tragedia familiare, alla disperazione di un nucleo umano frantumato da un evento traumatico che non riesce ad assimilare, al persistere di conflitti dolorosi e irrisolti contro i quali soltanto il legame con chi ci è caro può, forse, fare da scudo. Flanagan ritrae una famiglia bellissima che cade in pezzi e si frantuma, straziando lo spettatore che non riesce a non innamorarsi di ogni singolo personaggio. Scomodando ancora una volta Freud: «L’elemento angoscioso è qualcosa di rimosso che ritorna. Questo tipo di cose angosciose costituirebbe appunto il perturbante e non ha importanza sapere se ciò che ora è perturbante lo era fin dalle origini o era invece latore di un altro effetto»[2]. L’elemento perturbante può essere un fantasma come un tradimento, un rimpianto, un desiderio, un déjà-vu, un ritorno, una coazione a ripetere.
Nel 2001 il regista premio Oscar Guillermo Del Toro apriva il suo film La spina del diavolo (altra splendida ghost story) con un interrogativo e una riflessione: «Che cos’è un fantasma? Un evento terribile condannato a ripetersi all’infinito, forse solo un istante di dolore. Qualcosa di morto che sembra ancora vivo. Un sentimento sospeso nel tempo, come una fotografia sfocata, come un insetto intrappolato nell’ambra».
Hill House è tentativo di rispondere alla domanda. È una magione che sorge minacciosa in mezzo alla campagna americana, una dimora orrorifica in cui nulla può conservarsi sano, ma cionondimeno può conservarsi, ripetersi, ritrovarsi, forse perdonarsi. È un luogo sinistro, sì, malevolo, probabilmente, ma è anche una casa piena di «cose preziose», come viene detto da uno dei personaggi. Hill House non è solo mattoni, parole e girato: è il luogo familiare e terribile, infestato e infestante, il luogo spaventoso a cui dobbiamo tornare per salvare quanto di prezioso vi è eternamente custodito.
[1] S. Freud, Il perturbante [1919], a cura di C. L. Musatti, Theoria, Roma 1984, p. 14.
[2] ivi, p.57.
Mostra commenti