The Battleship Island (Gun-ham-do), kolossal sudcoreano ad alto budget per la regia di Ryoo Seung-wan, dopo il grande successo al botteghino in patria, approda al Far East Film Festival 20, riscuotendo applausi e consensi anche dall’esigente pubblico della kermesse udinese. L’isola nave da battaglia del titolo è Hashima, a un’ora circa di navigazione da Nagasaki, oggi patrimonio Unesco, ma durante la seconda guerra mondiale tristemente nota come luogo di deportazione e sofferenza per centinaia di lavoratori coreani, costretti dall’apparato bellico giapponese a lavorare nelle miniere sotterranee di carbone dell’isoletta.
Le rappresentazioni reciproche di Corea e Giappone trovano nel cinema una cassa di risonanza formidabile, riflettendo le tensioni politiche e sociali tra i due popoli: The Battleship Island, ad esempio, è stato criticato tanto dalla destra nazionalista nipponica quanto da una certa opinione pubblica sudcoreana, indispettita dalle figure dei coreani collaborazionisti. È certo che le relazioni tra i due paesi negli ultimi cento anni sono state estremamente travagliate, a partire dalla quarantennale occupazione coloniale giapponese della penisola di Corea, passando per gli stravolgimenti del secondo conflitto mondiale, fino alle polemiche sull’eredità post-coloniale, incentrate su questioni come la tragica vicenda delle “comfort women” (le ianfu, donne dell’Asia Orientale costrette a concedersi sessualmente ai militari giapponesi durante l’espansione dell’impero nipponico) e il trattamento della minoranza coreana in Giappone (i cosiddetti zainichi).
In questo senso, come detto, la cultura popolare, e segnatamente l’immaginario filmico, rappresenta uno specchio dell’immagine reciproca delle due società. Basti richiamare in questa sede alcune pellicole degli ultimissimi anni: il giapponese Sayonara Kabukichō (Kabukicho Love Hotel, 2014) di Hiroki Ryūichi, che mostra la realtà di Shin-Ōkubo, la Korea Town di Tokyo; i coreani Amsal (Assassination, 2015) di Choi Dong-hoon, una rilettura del recente passato coloniale, e Kwihyang (Spirits’ Homecoming, 2016) di Cho Jung-rae, un commovente ritratto del dramma delle “donne di conforto”. Ma forse il caso più emblematico è quello di Myeongryang (The Admiral: Roaring Current, 2014), ad oggi il film con più incassi di sempre in Corea, ispirato alla Battaglia di Myeongnyang (1597), in cui l’ammiraglio coreano Yi Sun-sin, al comando di sole 12 navi, sconfisse una flotta giapponese di 330 imbarcazioni.
The Battleship Island si inserisce appieno in questo filone, concentrandosi sul tema del lavoro forzato. Il regime coloniale giapponese fu caratterizzato da un massiccio sfruttamento di forza lavoro coreana[1], nonché da una forte discriminazione razziale, entrambi aspetti ben evidenziati dal film. Centinaia di migliaia di lavoratori maschi furono reclutati dall’industria giapponese e inviati forzatamente in Giappone, in particolare durante la seconda guerra mondiale, in aggiunta a un già consistente numero di immigrati trasferitisi spontaneamente nel Sol levante durante i primi anni di occupazione coloniale della penisola[2].
Tra i forzati di Hashima rappresentati nel film spicca Lee Kang-ok (interpretato da Hwang Jung-min), leader di una banda musicale a Gyeongseong (nome con cui ci si riferiva abitualmente a Seoul durante l’occupazione giapponese). Kang-ok, costretto a recarsi sull’isola, sceglie di portare con sé l’unica figlioletta Lee So-hee (una sorprendente Kim Su-an), cantante e ballerina, per proteggerla dal caos imperante. L’eclettico musicista non esita a ricorrere a espedienti, sotterfugi e meschinità, pur di garantire la sopravvivenza e l’incolumità di So-hee in un contesto brutale come l’isola-miniera, dove gli uomini vengono inviati fino a mille metri sotto il livello del mare e le donne costrette a sopportare la brutalità dei soldati.
La pellicola, che non difetta di spunti comici accanto a momenti decisamente drammatici, prende una piega volutamente epica nel racconto della fuga di circa 400 prigionieri, che, a rischio della vita, sotto la guida di Park Moo-young (Song Joong-ki), un membro del Movimento per l’Indipendenza della Corea infiltratosi sull’isola, e di So Ji-sub (Choi Chil-sung), combattente da strada di Gyeongseong, un duro dal cuore d’oro, tentano di lasciare l’isola in mezzo al marasma dei bombardamenti americani. La scena finale vede i fuggitivi osservare impietriti dal ponte di una nave la distruzione di Nagasaki da parte del fungo atomico: «Lì vivono anche tanti coreani…».
Il regista Ryoo Seung-wan non ha mancato di sottolineare come il tema principale del lungometraggio non sia tanto il revanscismo, quanto gli orrori della guerra. A rimarcare l’onestà intellettuale del regista, nonostante qualche inevitabile concessione all’epos nazionale, la denuncia operata nel film del ruolo dei collaborazionisti coreani, accanto a quella delle atrocità dei militari giapponesi, perpetrate dietro la patina ipocrita della cooperazione tra popoli asiatici sotto l’ombrello imperiale.
In ultima analisi, The Battleship Island, mostrato a Udine in versione Director’s Cut, rientra in quel filone della filmografia coreana contemporanea che tenta di esplorare e rispecchiare le preoccupazioni rivolte verso il “vicino giapponese”, inevitabilmente legato alla Corea per motivi storici e geografici. Questo tipo di cinema contribuisce alla faticosa ricostruzione dell’identità nazionale attraverso il racconto cinematografico della storia.
[1] Suh, S. C. (1978) Growth and Structural Changes in the Korean Economy, 1910-1940: The Korean. Economy under the Japanese Occupation. Cambridge: Harvard University Press.
[2] Weiner, M. (1998) The Mobilisation of Koreans During the Second World War. In: S. Large, ed., Shōwa Japan: 1941-1952. Abingdon-on-Thames: Taylor & Francis, 249-271
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