L’università italiana non funziona, quella meridionale è fallimentare.
Ovviamente, questo assunto piuttosto condiviso conosce importanti eccezioni, ed è vero che, spesso, le eccezioni sono più interessanti del caso normale, perché lo chiariscono.
È sicuro, comunque, che oggi un problema esiste: iscritti in diminuzione, pochi laureati, didattica non sempre all’altezza delle aspettative, ricerca di qualità confinata in ghetti ed un accesso alla docenza ancora troppo legato alle vecchie logiche clientelari, nonostante i buoni risultati della abilitazione nazionale che ha consentito a tanti bravi ricercatori senza padri e padrini di acquisire il titolo di prof. Ed allora, si stava meglio quando si stava peggio? Dobbiamo rimpiangere i tempi pre-crisi delle università omologate sul piano dei finanziamenti, destinatarie di risorse a pioggia, ricche di iscritti (anche al Sud) ed in balia totale dei baroni?
Non credo. Perché i soldi sparivano in mille rivoli sotterranei, gli studenti erano costretti a lezioni (?) nei teatri (penso a Giurisprudenza nell’ateneo di Messina), per poi trascinarsi – conosco fuori corso ventennali – fino all’agognato pezzo di carta che tutti unisce e parifica mortificando sacrifici e merito.
Che fare, dunque? I bene informati, gli addetti ai lavori, sono per lo più scettici e dubbiosi; anche i progressisti cool e di maniera – quelli che, come ben aveva intuito Vecchioni, dopo aver per tanti anni giocato ai banditi rivoluzionari, hanno ormai i soldi in banca e non vogliono di certo svaligiarla – preferiscono tutelare lo status quo, pontificando di sacralità dell’istituzione ed opponendosi in piazza ad ogni progetto di riforma.
Io prenderei a modello gli atenei anglosassoni: università in competizione per i fondi, misurazione seria di ricerca e qualità e abolizione del pari valore legale del titolo di studio!
Certo, sussiste nel medio periodo il rischio di chiusura per molte sedi improduttive (e, perciò, non premiate dagli studenti), ma, di sicuro, continuare così come se nulla fosse condurrebbe senz’altro alle chiusure di cui sopra. Ciò riguarderebbe soprattutto tanti atenei meridionali, visto che oggi, in un quadro di sostanziale monopolio statale, burocratico ed omologante dell’istruzione universitaria – e non, quindi, a seguito dell’applicazione di fantomatiche politiche liberiste – i nostri ragazzi affollano Torino, Bologna e Venezia pagando affitti da rapina per poter accedere ad un’istruzione di migliore qualità.
In mezzo a questa confusione è intervenuto Pietro Grasso, l’ex presidente del Senato, oggi leader di “Liberi e Uguali”, che promette in campagna elettorale di abolire le tasse universitarie come soluzione del problema. Va riconosciuta, in ogni caso, la nettezza di una proposta che ha consentito di porre all’attenzione mediatica la questione dell’università italiana.
Veniamo al merito, dunque: questa proposta risolverebbe davvero i nostri problemi?
Il cosiddetto Student Act (legge di stabilità 2017) ha già creato una no tax area per i ragazzi con ISEE (indicatore della situazione economica equivalente) inferiore ai 13.000 euro e forti riduzioni per ISEE tra 13.000 e 30.000. La proposta di Grasso, quindi, finirebbe per premiare, tra gli uguali, i “più uguali”, ossia gli ISEE superiori a 30.000 euro, cioè coloro che qualcosa davvero potrebbero pagare per sostenere il sistema, e realizzerebbe così un effetto d’imposta regressivo rispetto al reddito: un effetto davvero paradossale per chi dice di essere di sinistra!
Tutto ciò, è chiaro, non tangerebbe neanche di striscio le vere difficoltà dei capaci e meritevoli sprovvisti di mezzi (già fruitori della no tax area), che si chiamano: vito, alloggio e libri.
Una proposta alternativa? Beh, se non vogliamo fare gli inglesi, facciamo almeno davvero e seriamente gli italiani! Torniamo quindi al dettato costituzionale: l’art. 34 sancisce per i bravi e privi di sostanze (non per tutti, quindi) il diritto di raggiungere i gradi più alti dell’istruzione anche universitaria; e come? Attraverso borse di studio, assegni alle madri e ai padri di famiglia, ed altre provvidenze da assegnare per concorso.
Detto questo, la proposta di Grasso brucerebbe a vuoto 1,5 miliardi di euro l’anno, svuotando ulteriormente le casse degli atenei; sarebbe meglio, invece, decidere di investire queste risorse di fiscalità generale – reperibili ad esempio facendo uscire dal sistema dei finanziamenti statali i dipartimenti autoreferenziali e stitici in ricerca e buona didattica – in borse di studio sostanziose che consentissero di sostenere le famiglie meno abbienti nello sforzo economico per far fronte ai tanti oneri derivanti dall’iscrizione nei buoni atenei.
Ne potrebbero venir fuori ben più di 100.000 nuove borse di studio che, su una platea di circa 1,5 milioni di studenti, non è malaccio. Il ragionamento sarà meno populistico e demagogico, e per questo, ovviamente, prenderebbe meno voti, ma ha il pregio del realismo e dell’efficacia pratica.
Ah, dimenticavo, si potrebbe pure pensare a chiudere le università e non ad abolire le tasse! Una sorta di rinnovata e più “alta” proposta Papini, una Papini 2.0 potremmo dire.
E così davvero risolveremmo tutti i dilemmi senza poter essere accusati di rimestare nel torbido delle utopie irrealizzabili, perché siamo purtroppo già oggi sulla strada Papini, che di certo boutade come quella di Grasso non aiutano ad invertire.
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