Speciale Elezioni Politiche 2018: intervista ad Alessia Stelitano di Potere al Popolo

Alessia Stelitano

In vista delle imminenti consultazioni elettorali, la redazione di Suddiario.it ha messo in cantiere una serie di interviste ai candidati in lizza a Reggio Calabria per le diverse formazioni politiche, con lo scopo di permettere agli elettori di informarsi e orientarsi meglio.

È il turno di Alessia Stelitano, candidata per Potere al Popolo alla Camera, collegio uninominale di Reggio Calabria (Calabria 08) e collegio proporzionale di Reggio Calabria-Gioia Tauro-Vibo Valentia-Catanzaro (Calabria 02).

Intanto grazie per volersi sottoporre alle nostre domande. Vuole presentarsi ai nostri lettori? Se non le dispiace, ci racconti delle sue esperienze di vita, lavoro, formazione, e successivamente del percorso che l’ha portata a impegnarsi in politica, scegliendo di candidarsi con Potere al Popolo.

Sono Alessia Stelitano, ho 30 anni e sono architetto, nella precarietà che caratterizza molti neo-professionisti e coetanei. Mi sono formata all’Università Mediterranea di Reggio Calabria, ho una laurea triennale e una quinquennale, tre esperienze all’estero (due in Turchia e una in Spagna). L’Università mi ha dato molto, anche molte occasioni di criticarla: ho fondato con altri il Collettivo Universitario nel 2008 e portato avanti varie battaglie (contro tagli ai finanziamenti e l’aumento delle tasse, contro il numero chiuso e per maggiore trasparenza e partecipazione): azioni d’amore e di lotta contro l’indifferenza generale verso una realtà formativa importante per il nostro territorio.

Al di là dell’Università, per un breve tempo ho avuto la tessera del PdCI, ho in seguito partecipato a lotte territoriali e ambientali contro le grandi opere e gli impianti (Ponte sullo Stretto, Centrale a carbone, Rigassificatore), per il diritto alla casa e per la ripubblicizzazione delle risorse come l’acqua e i servizi. Ho alle spalle anche attività di volontariato in ambito di Protezione Civile per oltre 12 anni.

Potere al Popolo (che poi è la parafrasi di “democrazia”) è stata da subito la naturale “casa” per noi che, sui territori, viviamo la realtà plasmata da una politica mediatica e dalle sue leggi fatte da gente che, a parole, si professava di sinistra ma emanava riforme classiste e devastanti per le classi lavoratrici e precarie, leggi repressive del dissenso e del diritto di sciopero passando al di sopra delle istanze popolari. Vogliamo unire tutte le lotte e ribaltare le logiche di questa politica e costruire insieme una società più giusta. Per questo ho accettato la candidatura proposta dall’assemblea territoriale, anche se di certo nessuno di noi ha velleità poltronistiche: continuiamo a fare quello che facevamo prima, ma con la possibilità di dare più forza e più voce, più potere, quindi, al popolo.

Vuole esporci i punti principali del programma di Potere al Popolo? Quali sono le priorità per questo neonato movimento? Vi presentate come sinistra antiliberista: il lemma “popolo” nel nome del movimento non rischia di farvi percepire come populisti di sinistra?

Noi non siamo populisti: questi parlano alla pancia delle persone, approfittando dei loro malumori e frustrazioni, a volte dell’ignoranza, per dar loro un falso nemico con cui prendersela. Il populismo mira a un’involuzione della società, con persone sempre più incattivite e tra loro diffidenti, sempre più chiuse in se stesse, meno consapevoli e, quindi, più facilmente ricattabili e sfruttabili. Noi vogliamo essere invece popolari: ascoltare il popolo ma ragionarci con la testa e con il cuore, trovando insieme soluzioni per un’evoluzione di questa società.

Le nostre priorità? Lavoro per tutti ma anche più tempo libero per tutti: nel 2018 sembra di stare nel 1800, tra giornate lavorative di 12-15 ore, lavoro a cottimo, nero o “grigio” e disparità salariali abissali tra zone geografiche o uomini e donne. Si deve lavorare il giusto e con le giuste tutele, quindi vogliamo abolire il Jobs Act e la riforma Fornero, perché dopo anni di lavoro si ha diritto a godersi una vecchiaia degna. Vogliamo redistribuire la ricchezza, servizi pubblici essenziali garantiti: acqua, energia, sanità, casa, istruzione. Vogliamo togliere linfa all’emarginazione sociale, e di conseguenza manovalanza alla criminalità organizzata, anche per questo vogliamo un radicale cambiamento del sistema giustizia: chi sbaglia deve pagare, ma lo Stato deve tendere a migliorare le persone, non si deve vendicare su di loro, altrimenti si generano solo nuovi mostri.

Siamo senza nessun dubbio un movimento antifascista, perché non possiamo tollerare gli intolleranti, anche questo ci distingue dai populisti: loro si nascondono dietro paraventi per raccogliere consensi. Eppure la storia stessa lo insegna, con il fascismo non si può essere neutrali: la Costituzione nata dalla Resistenza dice che il fascismo è un crimine, non un’opinione, quindi le organizzazioni fasciste vanno chiuse e i loro patrimoni confiscati, come si fa con le mafie (d’altronde molte inchieste hanno anche accertato collusioni tra gli appartenenti ad entrambe).

Nonostante la vostra presenza massiccia su Internet e la forte carica dal basso che esprime la vostra vicinanza ai centri sociali, agli spazi occupati, ai movimenti contro le grandi opere o al sindacalismo di base, non sembrate sfondare nei sondaggi. C’è qualcosa che il MoVimento 5 Stelle ha capito dell’utilizzo della Rete che voi non avete ancora saputo sfruttare?

 C’è da dire una cosa, diversi sondaggi ci hanno dato all’1%, all’1,8%, al 2,4%: lasciano il tempo che trovano, siamo consapevoli che mirano ad influenzare l’opinione pubblica, però di una cosa possiamo avere certezza: nessuno di questi è commissionato da noi, non ne avremmo la possibilità economica (ci autofinanziamo e non abbiamo rimborsi elettorali) per cui, chissà, qualcuno di questi si avvicinerà al dato reale! Comunque come lista esistiamo da un paio di mesi, perciò anche percentuali apparentemente basse non sarebbero irrilevanti, visto che non abbiamo grande diffusione mediatica.

Il M5S ha saputo sfruttare la viralità della rete, in questo sono stati molto bravi, ma hanno dato secondo me troppa fiducia al web, come se fosse il garante di tutto; in più sono ambigui nelle idee, populisti e cambiano idea dalla mattina alla sera: lì dentro si è infiltrato di tutto, un giorno occhieggiano a CasaPound e un altro ai vecchi elettori di sinistra, il tutto in un sistema informatico che è molto meno democratico di quanto sembrasse ai più. Adesso che i 5Stelle hanno raggiunto una certa popolarità, fanno più gola e dispongono di più soldi, questo castello di carte sta iniziando a rivelarsi per quello che è: un’accozzaglia di individui in cui è tanta la pretesa di far valere ognuno “uno”, che sta sfuggendo di mano il controllo (che mai c’è davvero stato) di chi stanno facendo salire in Parlamento e, si teme, al governo. Il prezzo da pagare per un migliore sfruttamento della rete non può essere un’inesistente discussione e sintesi di cosa si voglia e si proponga, né la diffusione di notizie non verificate e la protesta contro nemici “facili” come la “casta” o l’immigrato.

Di fronte ai recenti fatti di Macerata o alla tragedia della tendopoli di San Ferdinando il tema delle politiche sull’immigrazione si impone sempre di più nel dibattito pubblico. Qual è l’impostazione che Potere al Popolo intende dare al problema?

La colpa dei fatti di Macerata non è degli immigrati, ma dei fascisti: è evidente. Sin dal primo giorno lo abbiamo definito un attentato terroristico, opera di una persona con una chiara connotazione politica ed inquadrata tra le fila della Lega, in cui è stata candidata: avrà pure deciso autonomamente di compiere quel gesto, ma l’ha fatto anche perché in campo politico e mediatico c’è chi ogni santissimo giorno soffia sul fuoco della paura, dell’odio e dell’intolleranza verso il “diverso”, tentando di dividere la società in etnie e in base al colore della pelle. Questi sono i responsabili dei fatti di Macerata, per questo non accetto l’accostamento con il tema immigrazione.

Rispetto a San Ferdinando, è stata una tragedia la cui causa sta nell’esistenza stessa di quella tendopoli. Attenzione: non nell’esistenza di quelle persone, ma del posto in cui li costringono a vivere! È una scelta quella di creare soluzioni “temporanee” (come fu quella dell’accampamento ben 8 anni fa), gestire per anni una perenne “emergenza”, costruendo ghetti in cui povertà, disagio ed emarginazione sociale si concentrano in qualche centinaio di metri quadri e poi, allo scoppiare dell’ennesima tragedia, dare ancora tende come unica risposta. Questa non è accoglienza. Tra l’altro, molti degli abitanti di quella tendopoli lavorano con un contratto come braccianti, nei campi della Piana di Gioia Tauro, sfruttati e sottopagati.

Per noi accoglienza vuol dire ospitalità diffusa, gli SPRAR [Sistema di protezione per richiedenti asilo e rifugiati, N.d.R.], di cui in Calabria, su 100, sono pochissimi quelli partiti, nonostante gli accordi: i bandi sono molto frequenti, ma i comuni non rispondono. SPRAR vuol dire integrazione, tirocini lavorativi, piccoli numeri proporzionati alla popolazione: si parla dell’ordine di 3 migranti ogni 1000 abitanti. Serve che i comuni si attivino e partecipino ai bandi, solo così si può fare integrazione: coloro che arrivano potrebbero dunque davvero dare un contributo alle comunità che li accolgono e vivere dignitosamente, ad esempio occupando a un giusto affitto alcuni degli oltre 50mila alloggi vuoti censiti in Calabria.

Bisogna anche ripristinare le finestre di accesso per i flussi migratori, per non farli passare dalla Libia e ripristinare il secondo grado di appello per le richieste di asilo: un diritto negato dalla legge Minniti-Orlando che in passato permetteva al 70% di chi aveva avuto un diniego in prima istanza, di ottenere in appello l’asilo sul nostro territorio. Non è in corso un’invasione, i migranti in Italia – su una popolazione di 60 milioni – sono poche centinaia di migliaia e neanche tutti vogliono restare nel nostro paese: i governi che si sono succeduti sono quelli che hanno creato le condizioni per il disagio e, adesso, sono gli stessi che urlano all’invasione e fomentano odio e razzismo. 

Un altro tema centrale di questa campagna elettorale è naturalmente l’Europa. Cosa intendete quando parlate di mettere in discussione i trattati? Anche voi strizzate l’occhio all’idea di uscire dalla moneta unica?

Non siamo autarchici, la chiusura delle frontiere non è un nostro punto, né pensiamo che sia l’Euro in sé il problema dell’Unione Europea. Piuttosto, quest’Europa, attraverso i trattati come il Fiscal Compact, ha imposto alle popolazioni degli Stati membri politiche che decidono della vita delle persone e la spesa pubblica dei paesi, mentre le popolazioni non hanno alcun controllo su decisioni prese a difesa degli interessi della finanza, dei ricchi e delle grandi corporation, perché i Trattati passano sopra le loro teste, il Parlamento non ha di fatto voce in capitolo, i governi acquistano poteri enormi ed impongono riforme “richieste dall’Europa”: vogliamo che ci sia una reale partecipazione delle persone a tutti i livelli della politica, tramite referendum e tutti gli strumenti possibili, dall’amministrazione del loro paesino fino alla scala europea.

L’Europa di ora vede crescere ogni giorno, su tutto il suo territorio, le disuguaglianze a dismisura. È necessario quindi rompere questi Trattati inaccettabili, far sì che i popoli abbiano voce in capitolo, che non siano messi in competizione l’uno con l’altro ma siano solidali tra di loro e siano la reale base dell’Europa che abbiamo in mente: Europa di diritti e giustizia sociale, pace e politiche discusse e realmente condivise.

Le forze politiche del centro-destra parlano di flat tax, mentre Liberi e Uguali ha proposto di abolire le tasse universitarie. Sono idee che cozzano col concetto di progressività dell’imposizione fiscale: chi più ha, più dovrebbe contribuire. Qual è l’idea di Potere al Popolo in merito a una tassazione equa?

Oggi l’1% della popolazione italiana possiede un quarto della ricchezza mentre, contemporaneamente, quasi un quarto degli italiani possiede lo 0,06% del totale. In un decente stato sociale ognuno contribuisce in proporzione a quanto ha: se si introducesse, faccio un esempio, un’aliquota del 30% uguale per tutti, come vorrebbe la flat tax, se guadagno 10mila euro al mese, pago 3000 euro, se ne guadagno 1000, ne pago 300. È chiaro che nel primo caso mi rimangono 7mila euro che, a meno che non sia Briatore, dovrebbero essere piuttosto sufficienti a vivere bene, ma nel secondo caso 300 euro su 1000 hanno un peso tutt’altro che indifferente nelle tasche di chi magari ci deve campare una famiglia. Ma tanto alla destra non importa, perché fa gli interessi dei ricchi, dei padroni, e sparando queste proposte dà l’impressione di far del bene anche al piccolo imprenditore, alla lavoratrice autonoma, all’operaia o all’impiegato, perché uno sente “abbassiamo le tasse” e crede che le abbassino, in proporzione a tutti, e invece no.

Vogliamo un sistema fiscale progressivo, come dice la Costituzione, con 32 scaglioni di reddito e aliquote che vanno dal 10 al 72%; vogliamo recuperare i grandi patrimoni fiscali e far pagare alle grandi multinazionali le tasse che devono e che finora hanno eluso. Realizzata una fiscalità realmente equa, siamo d’accordo sul puntare alla gratuità degli studi universitari, ma perché chi lo dice ora non l’ha proposto finora? Stava là! Perché propongono l’abolizione di qualcosa che hanno introdotto o fatto aumentare proprio loro, continuando perfettamente il lavoro dei loro predecessori di destra?

Io vengo dall’università: a un certo punto dei miei studi ci hanno esattamente raddoppiato le tasse da un anno all’altro. Tutto questo a fronte di servizi praticamente inesistenti: non c’era una mensa pubblica, le borse di studio erano limitatissime, i servizi erano scarsi perché il personale non era sufficiente, i posti nella casa dello studente totalmente squilibrati rispetto al numero degli iscritti. È successo che ad un certo punto si è deciso da un lato di tagliare progressivamente i fondi di finanziamento ordinario e dall’altro di dire che le università pubbliche italiane non avevano più “diritto” ai finanziamenti, ma se li dovevano meritare, come fosse un premio in base a un giudizio dato da un’Agenzia nazionale (l’ANVUR); le università si sono messe in competizione tra loro e, se sorgevano in un territorio ricco di per sé, ricorrevano ad aziende private, si facevano finanziare, integravano con finanziamenti regionali ecc. Se invece sorgevano in una regione come la Calabria o la Sicilia, tante di queste possibilità venivano meno. È chiaro che sia impensabile poter rendere il sistema universitario gratuito per tutti se non si fa a monte una politica fiscale fortemente progressiva e un ribaltamento delle logiche di finanziamento all’università: i fondi devono arrivare in base al numero degli studenti, mentre l’ANVUR va abolita.

Si è criticata da più parti la cosiddetta Buona Scuola. Cosa intende fare Potere al Popolo per migliorare il sistema scolastico italiano e incentivare la ricerca, che, nel nostro Paese, a parte poche eccellenze, non riesce a decollare, determinando una scoraggiante fuga dei cervelli?

Cercano di convincerci in tutti i modi che studiare non serva a nulla se vuoi mangiare: noi non siamo d’accordo. Innanzitutto è necessario dirottare più finanziamenti alla scuola, all’università e alla ricerca, insieme costituiscono uno dei pilastri della società: ci hanno raccontato per anni che non c’erano soldi, che si doveva tagliare, eppure l’Italia spende ogni giorno 80 milioni di euro in spese militari, eppure lo Stato italiano ha distribuito a pioggia milioni alle scuole private. Vogliamo cancellare la “Buona Scuola”, perché ha svilito il ruolo dell’istruzione nella società, l’ha resa lo specchio della realtà collettiva in cui viviamo: ha asservito la scuola alle imprese (vedi l’alternanza scuola-lavoro, qualcosa di molto diverso da un’esperienza pratica utile in alcuni indirizzi scolastici), ha tolto voce a chi la scuola la vive, studenti e insegnanti, per concentrare il potere nelle mani dei dirigenti. Le scuole sono trattate come aziende, in cui si accumulano studenti nelle classi a discapito della qualità didattica: scuole che si “sponsorizzano” e si vantano di non avere stranieri o disabili nelle loro classi.

Praticamente tutto l’opposto del ruolo fondamentale di collante sociale, di confronto e di apertura delle menti che la scuola deve avere, dove i figli delle famiglie più povere possano avere le stesse possibilità di acquisire conoscenza e abitudine al pensiero e al ragionamento del figlio del notabile o dell’imprenditore. La scuola dev’essere gratuita, libera, larga e solidale, lo diciamo da anni nelle piazze e nei luoghi dell’istruzione (eppure sempre più spesso si usa la polizia per fare irruzioni nelle scuole, anche in caso di semplici conferenze); le condizioni devono essere uguali in tutto il paese; l’obbligo scolastico (non l’attuale formativo) dev’essere innalzato fino alla maggiore età; nelle classi ci devono essere massimo 20 alunni, seguiti da docenti che abbiano un adeguamento serio del livello salariale e che siano stabilizzati. I fondi, come accennavo anche prima, devono essere destinati sulla base del numero degli iscritti, non di valutazioni tendenziose che, guarda caso, premiano sempre chi già ha di più: a tal proposito, vogliamo abolire i test INVALSI; inoltre gli edifici scolastici devono essere messi in sicurezza ed adeguati.

Allo stesso modo la ricerca dev’essere pubblica e supportata economicamente, perché fa evolvere la società: se fosse asservita al mercato, alle aziende, al profitto e alla produzione sarebbe limitata a quello che serve ai privati. Le aziende non investono in quello che non potrebbe avere un immediato ritorno economico e questo causa un affossamento della ricerca “teorica”, sia scientifica che umanistica, i cui risultati li vediamo invece negli anni, le cui scoperte cambiano il corso della storia e della società: quella ricerca che, tanto per dire, ci permette oggi di fare le risonanze magnetiche ed avanzare nella medicina, che ci permette di studiare forme per ridurre l’inquinamento. Tutte queste cose spesso non sono nate da studi appositi per arrivare a quell’obiettivo, ma da lunghi processi di ricerca teorica che, apparentemente, non serviva a nulla.

Qual è l’approccio di Potere al Popolo ai problemi del Mezzogiorno, profondamente intrecciati con quelli dei giovani? Quali sono le proposte avanzate concretamente per combattere quello che sembra essere un irreversibile degrado, accompagnato da un processo, relativamente nuovo, di spopolamento dei centri urbani e delle campagne del Sud dovuto ai flussi migratori interni e al calo della natalità?

Siamo gli unici a parlare di una nuova “questione meridionale”: dal Sud la gente scappa via, il tasso di disoccupazione è alle stelle e così anche quello dell’emigrazione. Eppure non è un fenomeno nuovo né irreversibile: è la conseguenza delle politiche che nei decenni hanno considerato il Mezzogiorno d’Italia come il fornitore ufficiale di manovalanza e cervelli a basso costo, territori da distruggere e popolazioni da ricattare. L’imposizione di economie estranee ad alcune prerogative e caratteristiche del Sud hanno stravolto il sistema produttivo, creato cattedrali nel deserto e impianti altamente inquinanti in cambio di qualche posto di lavoro (o di un suo miraggio, come accadde con l’ex Liquichimica di Saline Joniche, attiva per pochi mesi), spesso con incentivi pubblici, per poi abbandonare quei territori. In svariati, poi, si sono rivelati un veleno per la popolazione: la fabbrica tessile Marlane a Praia a Mare, ad esempio.

Il territorio meridionale è stato letteralmente martoriato, e lo dico senza vittimismo, ma con la consapevolezza che si debba ribaltare la questione: tutelare il nostro ambiente, servizi di mobilità accessibile e intermodale, creare le condizioni perché i nostri paesi e le nostre città siano davvero vivibili e accessibili. Bisogna portare scuole e ospedali ai massimi livelli, rispettando il principio di gratuità della sanità pubblica e, dove fossero stati chiusi, riaprirli e integrarli con ambulatori di prossimità. Bisogna investire nella rete ferroviaria, stradale e infrastrutturale capillare su tutto il territorio: non vogliamo investimenti di miliardi di euro per grandi opere come il Ponte sullo Stretto o il più recente ponte di Calatrava (a Cosenza) quando tutto il territorio cade a pezzi ed è soggetto ad altissimo rischio sismico e idrogeologico, e quando non possiamo spostarci senza possedere un’automobile.

Le campagne si sono spopolate già decenni fa, con l’illusione del salario operaio e la mancanza di politiche di redistribuzione delle terre che facessero uscire dal latifondismo a cui era soggetta tutta la popolazione contadina, sfruttata nei campi e nella raccolta di olive, arance, gelsomini. Quelle campagne oggi hanno una ricchezza immane, spesso hanno ancora coltivazioni attive da allora, ma che nessuno mette a frutto, che nessuno lavora, ed in quest’abbandono si crea il contesto in cui la criminalità organizzata dispone illecitamente di quei terreni, dei cantieri e del mare per seppellire rifiuti tossici o creare discariche illegali: per questo serve anche un piano di bonifica generale dei territori, per sapere cosa abbiamo sotto i piedi e far ripartire seriamente un’economia agricola e turistica moderna e solidale. 

Dal suo profilo emerge un particolare interesse per i temi dell’architettura e della valorizzazione dei beni culturali e ambientali. Il patrimonio architettonico e paesaggistico del nostro Paese, più che mai nel Mezzogiorno, e senza dubbio nell’area dello Stretto, è in una situazione perenne di emergenza, dissesto e incuria. Come valorizzare il nostro capitale storico e naturale?

Innanzitutto non è possibile valorizzare i beni culturali e ambientali se facciamo scempio dei territori, se permettiamo ai grossi speculatori privati di costruire ovunque vogliano, se insediamo discariche ed impianti inquinanti, se non ci focalizziamo su mobilità integrata e sostenibile. Questa è una premessa fondamentale. Poi, più tecnicamente, servono la volontà e la programmazione: sembra banale dirlo ma, faccio un esempio, la prima cura contro gli incendi boschivi sta nel tenere puliti i campi e le montagne, tagliare l’erba e fare manutenzione. Arrivare in fase di emergenza a correre ai ripari costa più energie, più soldi e comporta comunque un danneggiamento parziale (o totale) del patrimonio naturale.

Dalle istituzioni si punta sempre il ditino su chi si fa la verandina sul balcone oppure occupa le case, però non si guardano le moltissime concessioni edilizie che hanno permesso di costruire interi caseggiati turistici direttamente sulle spiagge; ci vantiamo di paesaggi e cieli meravigliosi, ma non si prendono seri provvedimenti sull’inquinamento luminoso, a cui si può far fronte con dei banalissimi accorgimenti. I nostri borghi e il nostro patrimonio storico e ambientale sono eccezionali, serve una seria pianificazione dei luoghi pubblici della cultura (penso al museo di Reggio e a tutta l’area della Piana e della Locride), servono investimenti, ma con una gestione oculata e diffusa sul territorio. Una buona pianificazione permette anche di destagionalizzare il turismo che, dalle nostre parti, è un obiettivo assolutamente verosimile.

Nei centri cittadini, poi, serve buona architettura, non edilizia: quella è troppa (sono stati censiti oltre 50mila vuoti abitativi in Calabria) e di scarsa qualità. Serve pianificazione e una mappatura degli edifici a rischio in caso di terremoto o altre calamità: è necessario costruire meno, di qualità e riqualificare il più possibile quello che già c’è. Bisogna capire cosa serve sul territorio, dire che le imprese lavorano solo con la speculazione edilizia è falso: chi costruisce lavora ugualmente, che sia una casa, una biblioteca o una scuola, quello che cambia è il profitto della speculazione. Se ci sono interi edifici residenziali sul territorio sfitti o invenduti, molto probabilmente non mi serve costruire altre case; se su un’intera area urbana invece ho scuole fatiscenti oppure una sola biblioteca, dovrei dare concessioni per biblioteche e per riqualificazione di scuole. L’obiettivo è favorire innanzitutto le persone e i territori, rispetto ai profitti privati degli speculatori.

Si candida a Reggio Calabria, nell’area dello Stretto. Quali sono a suo avviso le prospettive di sviluppo per l’area metropolitana che include Reggio e Messina? Ci vorrebbe indicare una delle linee di azione rivolte allo sviluppo del territorio che intende portare avanti nel corso della legislatura?

Sicuramente gli strumenti cardine riprendono quelli che ho esposto nella domanda precedente e che non mi stanco di ripetere: pianificazione e servizi pubblici. Reggio Calabria, Messina e Villa S. Giovanni sono le tre città dell’area dello Stretto: devono essere sinergiche e ben collegate, perché una mobilità efficiente significa anche scambi culturali e commerciali. Lo vivono quotidianamente le moltissime persone pendolari tra le due sponde, soggette ai pochi e altalenanti accordi tra amministrazioni e gestori della mobilità via mare che, di fatto, hanno il vero monopolio e decidono in autonomia prezzi e tariffe.

Il trasporto tra Reggio, Villa e Messina dev’essere pubblico, frequente e intermodale, gratuito per alcune fasce di popolazione. Questo permetterebbe di rendere il tutto più accessibile all’utenza, sia economicamente che territorialmente, e di decongestionare le aree urbane e portuali, ma anche di riqualificarle: il miglior modo per rendere sicuri territori, strade o aree di qualunque natura è farli frequentare dalle persone e dalla comunità.

Il collegamento fisico garantisce quindi anche pianificazioni a livello culturale tra due città come Reggio e Messina che hanno storie, patrimoni e poli culturali intrecciati e spesso complementari. Anche a scala locale, dunque: mutualismo e solidarietà.

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