Non so quanto grande possa essere l’influsso della terra natia nel determinare le propensioni immaginifiche dei singoli individui.
Non di rado tuttavia mi trovo a pensare che la mia insaziabile fame di mostri possa in qualche modo essere legata al mio retaggio di isolana, all’aver guardato sempre allo Stretto come alla dimora di due speculari e immense creature mitologiche.
L’immediata attrattiva che nutro per ogni libro, film, racconto in cui sia presente un mostro (ancor meglio se di immani dimensioni) potrebbe forse derivare da leggende ormai connaturate alla terra che calpesto fin dall’infanzia, a quel mare tumultuoso che i miei occhi sempre spiano con dedizione. Non so se la stessa passione animi coloro che risiedono sulle rive del celeberrimo lago scozzese, né se gli abitanti di Boston alzino lo sguardo al cielo alla ricerca dell’uomo falena ispirati dallo spirito del luogo – o più semplicemente da qualche poco credibile foto sfocata -.
Certo è che un’ampia fetta di umanità non riesce a resistere al fascino delle storie che ci mettono di fronte alla nostra piccolezza, alla nostra innegabile, radicale insufficienza, e che io ne faccio parte senza appello.
I mostri, quali ne siano le proporzioni, sono sempre portatori di una carica interrogativa che finisce per detonare quando impatta con l’inadeguatezza dell’umana ragione. «I mostri non sono gli spettri paurosi dell’angoscia, non sono fantastici demoni maligni, non sono manifestazioni di una fantasia malata, ma rappresentano il primo interrogativo dell’uomo; sono la domanda che esige comunque risposta. Davanti al mostro l’uomo deve arrestarsi e umilmente chiedere»[1].
Il mostro non cessa mai di interrogare, non smette mai di coinvolgere: non è un caso che l’arte ne sia colma fin dai suoi miti originari e che, soprattutto nelle sue manifestazioni più moderne, essa sia uno dei territori di caccia preferiti delle creature da incubo.
Il cinema è forse il settore che più di ogni altro, forte non soltanto dell’impiego dell’immagine ma soprattutto del supporto del movimento e del sonoro, ha ospitato e dato modo di crescere (ancora!) a queste creature gargantuesche. Non è possibile, né utile in questa sede, stilare un elenco degli esseri improbabili che si sono susseguiti sugli schermi cinematografici sin dall’inizio del loro avvento, da quelli che ne iniziarono il genere a quelli che invece lo relegarono al rango di b-movie o cult di nicchia. Allo stesso tempo è però doveroso ricordare quelli che sono stati e continuano ad essere i due mostri cinematografici per eccellenza.
Il 1933 segna l’atto di nascita su pellicola di uno dei più celebri colossi che abbiano mai camminato su plastiche città terrorizzate, il regale gorilla King Kong, la cui morte lista ancora a lutto un angolo del mio cuore. Lo scimmione ha spalancato le porte di un immaginario selvaggio in cui la sicurezza delle strade cittadine può essere messa in discussione e tramutarsi nel territorio di caccia di una bestia primordiale e malinconica al contempo.
Nel 1954, direttamente dal mare dell’Asia, emerge il secondo mostro più famoso del mondo, il dinosauro atomico Gojira, presto liberamente traslitterato in Godzilla dalla distribuzione americana. La pellicola è epocale non solo perché inaugura il genere del Kaiju Eiga, di quel cinema di mostri che dal Giappone in poi conquisterà le sale di tutto il mondo con creature sempre più esagerate, ma anche e soprattutto perché conserva inalterata negli anni una durissima critica all’uso dell’atomica nonché una messa in guardia contro i pericoli di una non troppo distante (allora come adesso) prospettiva di guerra nucleare.
Entrambe le pellicole diedero adito immediatamente a seguiti, imitazioni, parodie, trasposizioni letterarie delle più diverse tipologie e livelli di qualità, nonché, in tempi più recenti, all’inaugurazione di remake e reboot. I due mostri sono stati fatti incontrare e scontrare innumerevoli volte, intrecciando sempre più i loro destini di celluloide. Prescindendo dall’analizzare il successo degli intenti e dalla riuscita effettiva di queste operazioni successive, un punto resta fermo e innegabile: tanto Kong “L’ottava meraviglia del mondo” quanto Godzilla “Il re dei mostri” sono divenuti senza dubbio alcuno icone marmoree e inviolabili, autentici paradigmi noti anche a coloro che per il genere non nutrono alcun interesse, o addirittura uno snobistico disprezzo.
Gli ultimi anni hanno segnato una riscoperta del profondo legame che si è venuto a creare tra le due creature. Nel 2014, infatti, Gareth Edwards (che due anni dopo avrebbe realizzato una delle più belle sequenze della saga di Star Wars all’interno dello spin off Rogue One) riporta sullo schermo l’immensa lucertola nipponica, aprendo la strada alla realizzazione del MonsterVerse, un universo condiviso incentrato su una serie di film che vedono la collaborazione di Warner Bros. e Legendary Pictures, con lo scopo di far fronte al proliferare di questi immaginari condivisi inaugurati dal MCU (Marvel Cinematic Universe). Kong: Skull Island di Jordan Vogt-Roberts arriva invece nel 2017 ed è il secondo tassello di questo mosaico in via di formazione, che punta a culminare con nuovi spettacolari incontri tra i due mostri. Entrambi i film vantano un cast d’eccezione, da Bryan Cranston e Ken Watanabe nel primo, a Tom Hiddleston, Brie Larsson e Samuel L. Jackson nel secondo.
Per il terzo film in programma, Godzilla: King of the Monsters, previsto per il 2019, è già stata scritturata la lanciatissima Millie Bobby Brown (Eleven in Stranger Things). Tra attori premio Oscar, budget ingenti e un imponente merchandising, l’operazione commerciale è palese, ma non malvagia proprio perché non viene taciuta. Sì, è lampante che i film in questione puntano alle tasche di quegli spettatori che al cinema vogliono essere assaliti da effetti speciali imponenti e da un montaggio frenetico e rumoroso; sì, è altrettanto chiaro che l’obiettivo è mettersi in pari con una realtà cinematografica che sembra premiare la casa di produzione che riesce ad avere dalla sua il carrozzone più colorato, esagerato e roboante.
Eppure il tutto viene ammesso candidamente, senza pretese di autorialità o particolare levatura. Il cinema di mostri divora allegramente se stesso smorzando le domande primordiali che ne avevano costituito l’atto di nascita.
Basta però fare un breve salto all’indietro per tirare un sospiro di sollievo: il 2016 ci regala due pellicole diversissime tra loro, accomunate solo dal tema del Kaiju e dal modo (pressoché opposto) di affrontarlo, totalmente al di là dai format dominanti. Si tratta di Shin Godzilla di Hideaki Anno e di Colossal di Nacho Vigalondo.
Il primo parte come il più regolare monster movie, salvo poi prendere una deriva del tutto imprevedibile: Anno (già padre del celeberrimo Neon Genesis Evangelion) crea un film riflessivo, divertente e, allo stesso tempo, profondamente frustrante. La prospettiva che sceglie è quella della burocrazia, di un Giappone avviluppato dai propri lacci politici che non riesce a fronteggiare in alcun modo l’imponderabile perché «non possiede una procedura per casi di questo genere». Il minutaggio riservato a Godzilla è minimo e proprio per questo di forte impatto. Il suo design ricorda un autentico “pupazzone” e lo avvicina al capostipite del 1954 ancor più che ai suoi epigoni. L’inquadratura finale, unico picco agghiacciante della pellicola, rivela però che il film non stava affatto scherzando e riporta in vita col massimo vigore la forte eco di denuncia presente nella prima apparizione del dinosauro atomico.
Il discorso per Colossal è ben diverso, quasi opposto. La vicenda è profondamente intima e, se possibile, ancora più surreale di quella di un normale film di mostri. Tutto ruota intorno alla figura di Gloria (Anne Hathaway), una giovane donna americana con problemi di alcolismo che scopre che i suoi movimenti sono collegati a quelli di un immenso Kaiju che improvvisamente inizia a devastare Seoul. Vigalondo crea una storia totalmente originale, scegliendo di non rispondere a nessuna domanda ma sbattendo in faccia al pubblico le sue trovate paradossali senza alcuna indulgenza.
L’avventura privata di Gloria si ingigantisce in modo sempre meno metaforico, coinvolgendo un’intera città e svelando in maniera palese come le conseguenze dei nostri umani errori possano avere ricadute mostruose.
Shin Godzilla e Colossal sono entrambi film di mostri che sono a loro volta mostruosi all’interno del genere cui appartengono. Pongono domande al cinema stesso: è possibile per questo tipo di storie essere raccontate in modo nuovo, imporre interrogativi differenti? È possibile che il cinema di mostri non sia mero intrattenimento casinista ma recuperi quella carica di alterità che sembra essersi disinnescata con la sovrapproduzione e la reiterazione costante di un immaginario stereotipato? Sì, è possibile. È possibile che qualcosa di nuovo affiori proprio all’interno di un genere che sembrava ormai sicuro e omologato, non diversamente da un immenso rettile che devasta all’improvviso una delle città più avanzate e organizzate al mondo.
Questo non significa che l’intrattenimento debba essere sacrificato. Al contrario, utilizzandolo per incanalare l’interesse di un pubblico spesso troppo atrofizzato, può rappresentare la possibilità per mettere in campo idee nuove, idee ingenti e mostruose, idee ricche di quesiti, proprio dove sembrava impossibile che qualcosa di diverso venisse fuori, pronto a cercare di saziare la nostra altrettanto mostruosa voracità.
[1] M. Mazzocut-Mis, Mostro, l’anomalia e il deforme nella natura e nell’arte, Guerini, Milano 2013, p. 160.
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