Un recente pezzo apparso su Internazionale a cura di Wu Ming 1 cerca di tracciare la genealogia del rapporto tra Pasolini, il fascismo e il neo-fascismo, mettendo molta carne al fuoco e suscitando numerose affinità ed altrettante divergenze interpretative in chi scrive.
L’assunto di base dell’autore in forza all’omonimo collettivo è che la ricostruzione pasoliniana del fascismo andrebbe contestualizzata onde evitarne letture strumentali da parte delle nuove destre, e su ciò nulla quaestio.
Più difficile è approvare il ribaltamento del rapporto istituito da Pasolini tra (feticismo della) merce e neofascismo, dunque anche al di là delle manifestazioni storiche del fascismo durante il ventennio. Secondo Wu Ming 1, più che la merce (la società dei consumi) a essere neo-fascista (questa la tesi fondamentale di Pasolini), è il neo-fascismo a farsi merce, e a passare così dall’ordine dei discorsi nel circuito del consumo, secondo una logica che dai paninari degli anni Ottanta conduce al marchio Pivert indossato da Salvini.
La lettura di Wu Ming 1 è diversa ma complementare a quella che, da più parti, accosta il discorso pasoliniano sul nuovo fascismo al lacaniano “discorso del capitalista” (si legga in proposito Slavoj Žižek, su tutti). In proposito, una brillante analisi del rapporto tra Pasolini, il Sessantotto e la rottura del legame simbolico con la Legge e la tradizione si ritrova anche nell’introduzione a Deleuze di Rocco Ronchi.
Quella di Pasolini non è un’antropologia meramente nostalgica: la ricerca dell’oggetto irrimediabilmente perduto (l’Italia “rurale” e “popolare” della prima metà del secolo scorso) va intesa psicanaliticamente come ammissione del carattere mortale e finito dell’esistenza. L’Italia che è andata perduta col trionfo della società dei consumi (l’edonismo del boom poi “evolutosi” nel culto sanbabilino e paninaro delle griffe e infine nella telecrazia berlusconiana) non è quella reazionaria e conservatrice, ma quella che sa di non poter conservare. Pasolini sa che è andata perduta la poesia, non il fango, o, se si preferisce, la poesia anche in mezzo al fango: quella delle borgate, dei paesi, dei dialetti, di una dignitosa miseria.
Se il fascismo è sintomo del turbo-capitalismo, secondo Žižek, è perché entrambi nascondono un nucleo psicotico, o, più specificamente, perverso. Il fascista reagisce al godimento consumistico che lo ha già colonizzato, che lo ha già reso neo-fascista. L’Italia contemporanea ha ormai interiorizzato la società liquida. Il vaso del passato è rotto. Non ci resta che una poetica del frammento — il coccio, l’oggetto leso e riparato, l’anti-feticcio. È il soggetto diviso, mancante, smarrito, l’anti-fascista del futuro.
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