Monet e van Gogh tra japonisme e manga

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Cos’hanno in comune il japonisme di fine Ottocento e i manga? Per provare a rispondere, riporterò un episodio personale di qualche anno fa.

La casa di Monet è una magione nascosta nel piccolo villaggio di Giverny, in Normandia. Oltre che per il giardino fiorito, le stagno delle ninfee e il ponte giapponese, il rifugio del maestro impressionista è famoso per ospitare una vasta collezione di stampe giapponesi. Nel 2013, insieme a mia cugina, Domenica Gisella Calabrò, antropologa innamorata del Giappone almeno quanto me, giunti a Giverny dopo una suggestiva pedalata da Vernon, ci abbandonammo all’incanto di quel luogo, accresciuto dalla presenza del “Giappone” in quello che era stato lo spazio più intimo dell’artista francese.

Il pensiero andò inevitabilmente all’epoca in cui l’Europa aveva iniziato a familiarizzare con l’estetica e la sensibilità giapponesi per il tramite dell’arte dell’ukiyo-e (le «immagini del mondo fluttuante»), sfidando una lunga storia di diffidenza divenuta isolamento durante il periodo Edo (1603-1868). L’influenza delle stampe del mondo fluttuante, effimero, impermanente, sull’impressionismo fu notevole, generando il fenomeno del japonisme. Il giapponismo fu molto più di una moda culturale ad uso di collezionisti francesi, olandesi, italiani, etc., poiché, in molti casi, quei collezionisti di xilografie e artefatti vari provenienti dal Sol levante per mezzo dei mercanti olandesi a partire dalla metà dell’Ottocento erano artisti del calibro di Monet, van Gogh, Degsas, Toulouse-Lautrec, e, per spostarci nell’ambito dell’Art Nouveau, Mucha.

Quello che però venne subito in mente a me e Domenica, consumatori della prima ora di cultura pop giapponese, fu di scherzare sul fatto che la casa di Monet rassomigliasse alle abitazioni di tanti collezionisti europei contemporanei, italiani e francesi soprattutto, le cui librerie traboccano di manga e anime. Il giapponismo è stato in qualche modo “resuscitato” da fenomeni di filiazione artistica e di influenza culturale come il gaijin manga o l’euromanga (i fumetti europei/occidentali ispirati all’estetica dei manga), ma anche da pratiche più amatoriali come le fanart o le fanfiction (disegni o storie ispirate dai personaggi dei manga/anime realizzati dai fan) o dalle performance cosplay (la pratica di vestirsi come i personaggi di libri, film, videogiochi, e, nel nostro caso, di fumetti e serie animate giapponesi).

Non fu affatto strano per due come noi, cresciuti in Italia negli anni Settanta-Ottanta “a pane e cartoni animati”, membri di quella che Marco Pellitteri ha efficacemente definito la “Goldrake Generation”, e “convertiti” in lettori di manga nei tardi anni Novanta, stabilire subito quel parallelo, ossia pensare a un collegamento sotterraneo tra japonisme di fine Ottocento e neo-japonisme dei nostri giorni.

Questo collegamento, o, se preferite, quello tra ukiyo-e e manga, o tra japonesque e “mangaesque”, non vuole identificare nel manga l’evoluzione naturale di precedenti espressioni artistiche nipponiche, secondo lo spirito della corrente di studiosi giapponesi (nihonjinron, «teorie sui giapponesi») sostenitori dell’unicità del Sol levante, la “giapponesità”.

Piuttosto che evidenziare una continuità all’interno della storia delle arti visive in Giappone, si vuole far notare il perdurare di una certa fascinazione esotica dell’Europa verso il Giappone, parzialmente collegata all’idea di un’unicità giapponese. Quel che è innegabile, è l’abilità del Giappone di introdurre nuove idee, mode, canoni, stili di vita capaci di influenzare le culture popolari urbane e periferiche in Europa, in Occidente e oltre, orientando i consumi culturali e il gusto estetico di giovani e meno giovani. Come sostenuto da Iwabuchi in un saggio del 2002, la globalizzazione si sta riorientando verso il Giappone (e l’Estremo Oriente).

Questo si può comodamente definire in termini di neo-giapponismo, e l’esempio più plastico di ciò l’ho avuto qualche settimana fa ad Amsterdam, al Van Gogh Museum, notando come la gente indugiasse di fronte alle copie (o per meglio dire rivisitazioni) di van Gogh delle stampe di Hiroshige, l’Albero di prugna in fioritura e il Ponte sotto la pioggia. Da “neo-giapponista” incallito, il mio (costoso) acquisto allo shop del museo è stato, manco a dirlo, una pallina di Natale ispirata all’Albero di prugna di van Gogh alla maniera di Hiroshige!

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  • Nato a Reggio Calabria, si è formato nell’area dello Stretto, coronando la sua formazione con un Ph.D. in Metodologie della Filosofia presso l’Università di Messina. Pop-filosofo di osservanza deleuziana, si occupa di estetica, psicoanalisi e filosofia della cultura di massa, con diverse pubblicazioni al suo attivo. Fa parte del comitato editoriale della rivista internazionale Mutual Images.

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