Marocco, romanzo. Ben Jelloun, Delacroix, lo sguardo dell’altro

Marocco, romanzo

Una lettera immaginaria a Delacroix

Alla fine di Marocco, romanzo di Tahar Ben Jelloun, si trova anche la lettera che il grande scrittore marocchino immagina di inviare a Eugéne Delacroix. Una lettera spedita dalle rive di Tangeri, che percorre il percorso inverso verso l’Europa e la Francia. La patria del pittore e Leviatano coloniale, viaggiando a ritroso nel tempo.

Risiede proprio in questa sfasatura geo-temporale in gran parte il fascino letterario del piccolo scritto, perennemente teso e sospeso in un doppio movimento che vede il Marocco descritto, raccontato, immaginato e sognato contemporaneamente dall’interno e dall’esterno dei suoi confini, geografici, culturali e storici.

Una corrispondenza oltre il tempo

L’autore scrive a un pittore di fine Ottocento da una città contemporanea, Tangeri, in cui la speranza fa rima con l’attesa, popolata da aspirazioni e desideri che si condensano e si lanciano come un ponte ideale sopra lo stretto di Gibilterra, quando non si gettano ad affrontare direttamente i flutti del Mediterraneo per la fatidica traversata, che sempre più assomiglia alla rivisitazione geopolitica di una roulette russa spietata e inumana.

Cosicché il vecchio porto sembra quasi scolorire e svuotarsi, nonostante i colori, la folla e i turisti, per riconsegnarci la fotografia di una città fantasmatica e fantasmagorica dove “ombre fragili” si aggirano divorate dall’ossessione di partire, aspettando una zattera per tentare la fortuna, e in mezzo il popolo di Tangeri che, da che mondo e mondo, è sempre lì, “un occhio al mare e uno al baccano”. Siamo in Africa eppure non siamo già qui, ma in Spagna, in Europa, in un posto immaginato, fatto di sogni e speranze, di proiezioni e auspici di una vita più leggera.

Oriente e occidente si confondono

Ben Jelloun nella sua lunga e fortunata carriera di scrittore, ci ha abituato a questo movimento oscillante, a questo continuo via vai di storie e racconti di migrazioni interne ed esterne, ma anche di immigrazioni al contrario: marocchini che vanno in Europa, occidentali che scelgono di vivere in Marocco, pentimenti, riflussi, gioie e nuove speranze, in una giostra continua. La caratteristica della lettera, però, è che qui il confronto con lo sguardo occidentale si fa talmente serrato, che il punto di vista spesso vacilla, si confonde e si infrange nella continua finzione di un gioco di specchi che coinvolge trasversalmente “oriente” e “occidente”.

Marocco, romanzo. La comprensione dell’altro

Campo di battaglia conteso e amato è la terra desertica e rossa del paese Nord Africano stretto tra il Mediterraneo, l’Atlantico e il Sahara. Su questo tema l’autore marocchino ingaggerà un corpo a corpo con l’immaginario del grande genio occidentale, non privo di schermate, allo stesso tempo animoso nel parare tutti gli immancabili orientalismi (e colonialismi) di cui grondano i taccuini del pittore, ma sinceramente affascinato e interessato verso il suo punto di vista. Un atteggiamento onestamente volto alla comprensione dell’altro e spesso quasi lusingato da alcune ingenuità di giudizio dello straniero, giudicate comunque commoventi.

Marocco, romanzo: Un modo per fare i conti con la propria terra natia

Il confronto con il pittore è per lo scrittore anche un modo di fare i conti con la terra natia, il Marocco, con la sua luce, la gente, gli stereotipi e le tradizioni. La luce che non muta nel tempo, ma solo di stagione in stagione, regalando una nettezza e una vita agli enti insospettabile, forse insperata. Il popolo che è quello di sempre e la gente che cambia, nell’avvicendarsi dei decenni e negli effetti delle migrazioni urbane. Cambia un po’ meno nelle credenze atemporali ancorate al Corano. È il Marocco dei musulmani, degli ebrei, dei berberi, dei regnanti opulenti, dei contadini, dei ribelli, dell’ospitalità e dei divieti. Tutto questo ripercorre come in un turbine il pittore spaesato. Delacroix nelle parole di Ben Jelloun “si trova altrove, ha varcato le frontiere dell’immaginario” (p.222). Pure quell’immaginario ricostruisce la trama di un arazzo familiare per il letterato autoctono.

La bellezza dell’impeto. Un Marocco trasfigurato

Ed ecco che l’autore ritrova la sua Heimat (terra natia), non tanto nei quadri, pur considerati mirabili, quanto negli schizzi frettolosi a matita e acquarello dei diari di viaggio del francese. Pittore abbagliato dalla luce selvaggia, stranito da “un popolo strano” e impaurito per la diffidenza attribuita all’islam verso le immagini. Secondo Ben Jelloun il merito di questi disegni non risiede nella perfezione, né tantomeno nella fedeltà al reale. Risiede invece nell’impeto: il Marocco vibra trasfigurato, certo, ma spumeggiante di energia vitale autentica e di grazia genuina. Nei cavalli che ripropongono la fiera irrequietezza degli uomini, nei turbanti modellati dal vento, nelle donne languide e piene di segrete promesse, come gemme in strani scrigni di alabastro e ceramica, nella fantasiosa composizione di usi ebraici a loro volta innestati su tradizioni berbere.

L’immaginario non si muove a senso unico

Ben Jelloun è consapevole del significato dell’orientalismo ed anche del fatto che “l’oriente lo hanno inventato i grandi poeti” (p.226). Ma sembra suggerire che l’immaginario non è un meccanismo che si muove a senso unico, bensì in spirali circolari che si contaminano e cambiano ogni volta che attraversano i territori. Questi sono sempre annodati e dipinti da traiettorie di sguardi differenti. “L’Oriente è un’idea, un modo di stare al mondo, di vivere e celebrare i morti, di credere al cielo generoso o agli alberi. È l’ossessione di instillare un pizzico di follia e di magia nella vita quotidiana, l’abitudine di posare il colore sui colori del clima, sulle anche delle dune, sulla chioma del mare e sugli occhi dei bambini turbolenti” (p.226).

Marocco, romanzo: Oriente come anelito ad andare oltre

L’Oriente più che un’immagine coloniale creata dall’Occidente, coincide in questo caso con un anelito insito all’animo umano. Anelito alimentato dalle pulsioni ancestrali che spingono l’uomo ad andare sempre fuori di sé e dalla medesima vita umana che è sempre al di là e oltre se stessa. L’Oriente coincide con l’immagine dello straniero, nella consapevolezza che non possiamo farne a meno. Per questo possiamo dire con lo scrittore marocchino che “appena si lascia il proprio paese si è in Oriente” (p.226).

Lo sguardo dell’altro

La lettera di Ben Jelloun rivolta ad un’icona dell’arte europea passata, confonde le prospettive al punto che non esiste più un Oriente e un Occidente. Infatti il reale e l’immagine che ne abbiamo muta attraverso la dialettica tra i due. Avanzano spazi e territori, declinandoli con le caratteristiche del familiare e dell’estraneo. Non contano i parametri geografici della lontananza e della vicinanza, in una forma di deterritorializzazione continua quanto creativa. In quest’ottica vitale e necessario diventa lo sguardo dell’altro. Infatti: “Bisogna uscire dalla propria tribù per leggere la Bellezza nello sguardo dello straniero” (p. 228).

L’edizione di “Marocco, romanzo” utilizzata è quella appartenente alla collana di Repubblica.it “la biblioteca del mondo”.

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  • Nata a Messina, ma con contaminazioni calabresi da parte di padre e Arbreshe da parte di nonna; ama vivere sospesa tra le due sponde dello Stretto, mescolando l’intima e continua confidenza con il mare, con le memorie d’infanzia legate alle campagne tra Crotone e Catanzaro. Si occupa di antropologia filosofica e fenomenologia tedesca, con un focus ossessivo sul corpo e l’intreccio tra biologico, esistenza e pensiero che esprime. Si allena ad osservare il mondo tramite il giornalismo, la pittura ed escursioni in vari continenti.

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