Un capolavoro che rende accessibile l’inaccessibile
Mi pare sia legittimo sbilanciarsi nel giudicare come una fra le opere più rappresentative del panorama letterario italiano, e non soltanto dell’anno in corso, M. Il figlio del secolo, ultimo romanzo di Antonio Scurati, candidato, fra l’altro, alla possibile vittoria del “Premio Strega” 2019.
Si tratta di un capolavoro, se per capolavoro si intende la possibilità, condotta al sublime grado di perfezione, di superare l’inibizione a compiere un salto in ciò che, pur non essendo teoricamente precluso al piano della comprensione (la Storia), resta tuttavia inaccessibile agli uomini, posto che la restituzione obiettiva degli eventi si pone al di fuori del perimetro della narrazione. Ciò nondimeno, Scurati imprime un ritmo quasi musicale ad oltre 800 pagine, senza inseguire l’affanno di dare presenza a tutto ciò che il pensiero non può e non dovrebbe avere la tentazione di divorare, lasciando fiorire la materia del suo racconto in una tensione, talora cinematografica, verso il compiersi tetro degli eventi, verso la messa in forma di un progetto finale di dissoluzione delle libertà.
“M” vede personaggi descritti con apparente distacco
Il protagonista del romanzo, come anche la sinfonia barocca di personaggi che gli si muovono intorno (i quali, si badi, non raggiungono mai la plasticità di quello principale), sono osservati con apparente distacco nel curvilineo movimento delle loro riflessioni, ben prima che nello svolgimento delle loro azioni: Scurati sa bene che per restituire i luminosissimi segreti della verità bisogna prima imparare a portare sulla scena il divertito trascorrere delle penombre.
Il succedere degli eventi in “M”
Il racconto prende avvio nel marzo del 1919 e si chiude con un tonfo sordo nel gennaio del 1925, dunque nel momento in cui Benito Mussolini si assume le responsabilità politiche e morali del delitto Matteotti: una sorta di rottura con tutta quella sordida violenza a cui gradualmente ci si era assuefatti lungo l’arco del racconto. Parafrasando il titolo di una nota pellicola di Bellocchio, il romanzo fa calare il sipario nell’istante in cui probabilmente sarebbe davvero stato possibile esclamare “Buongiorno notte”, ma, nel romanzo di Scurati, Matteotti non risorge nemmeno per pochi istanti, passeggiando finalmente libero per Roma; lo scrittore, a differenza del regista, non cede nemmeno per un attimo alla creazione di uno spazio di redenzione. Montani aveva messo magistralmente in luce la capacità di Bellocchio di autenticare l’immagine audiovisiva in una dimensione capace di rielaborare il rapporto fra la verità dell’assassinio di Moro e la finzione filmica[1]; Scurati, dal canto suo, riconfigura la realtà in un finto monologo, in grado di testimoniare, più realisticamente di qualsiasi testimonianza, l’ormai consumato disastro (“mi sono giustificato dinanzi alla storia ma devo ammetterlo: è struggente la cecità della vita riguardo a se stessa. Alla fine si torna all’inizio. Nessuno voleva addossarsi la croce del potere. La prendo io”[2]).
La narrazione segue il periodo precedente a quella che sarebbe stata definita la svolta mistica del fascismo, ovvero, per dirla con Bobbio, si concentra sui marcati aspetti dell’ideologia negativa che ha contraddistinto le origini del movimento (nella sua costante negazione di ogni corrente e non tanto sui suoi presunti tratti anti-ideologici), rispetto a quelli che saranno i caratteri di religione integrale, assunti poi dal fascismo a partire dagli anni Trenta, laddove le finalità eversive erano già state del tutto assorbite in fenomeno di cieca obbedienza e credenza[3].
Lo scontro tra partito e antipartito in “M”
Anche in M, però, sono reiteratamente tracciati tutti gli indizi che porteranno alla costruzione di un cerimoniale puro, azzerata qualsivoglia forma di dialettica interna al partito, in quanto quest’ultimo appare un poco più che vuoto apparato burocratico sin dagli inizi. In fondo, l’intero romanzo è un affresco, per certi versi illuminante e lapidario, di un costante dissidio interno, quello a cui Lupo aveva dedicato, a suo tempo, somma attenzione, descrivendo attentamente le controverse dinamiche delle beghe interne, in parte epifenomeniche dell’arduo tentativo di evitare l’insorgenza di vecchi schemi da partito notabile all’interno del movimento, e dunque di conservare la fede antipartitica, e in parte esemplificative dello scontro continuo con la politica come carriera, anche all’interno del partito unico[4]. Lo scontro fra partito e antipartito, in cui si annida la pericolosa pulsione auto-distruttrice del fascismo, è esemplarmente descritta da Scurati nelle continue esitazioni e tentennamenti da parte di Mussolini sullo statuto da conferire alla violenza, ovvero un aspetto ontologicamente costitutivo del virile fascismo rivoluzionario o semplice strumento da mettere da parte ex abrupto per rinascere come nuovi, ancora una volta, dotati dell’immagine vergine dei difensori di un ordine costantemente minacciato. E ancora, con velato sarcasmo, nelle continue escandescenze del duce nei confronti dei suoi sottoposti, annoiato e avvilito dai loro litigi e dai loro livori, infastidito dalla perdita di tempo a cui lo sottopongono, sottraendolo dal più lusinghiero compito di riscrivere la Storia.
“M” e la “pars destruens” del fascismo
M è il racconto degli aspetti più prodigiosi di una folle ascesa verso il potere, innanzitutto come minuziosa descrizione della pars destruens del movimento, nel suo profondo radicalismo e nel suo opporsi a democratici e liberali che, con sistematica puntualità, vengono paragonati a spazzatura, a rifiuti non riciclabili, meritevoli di completa eliminazione e non suscettibili di alcuna forma di rottamazione. Ciò che, invero, appare più interessante è come, a partire dalle tecniche eristiche delle quali sono imbevuti i ragionamenti di Mussolini, seguiti spesso attraverso le modalità del discorso indiretto, stirate su quelle del discorso indiretto libero, si renda evidente, nel corso della narrazione, e dunque al di fuori di quadri storiografici già consolidati in tal senso, l’assenza di una democrazia corroborata nei suoi meccanismi e nelle sue manifestazioni, che fanno assumere da ultimo, all’evento della sua non troppo lenta conflagrazione, il tratto farsesco di una vittoria maramaldeggiata.
Anche il popolo risulta responsabile del fascismo
La fine penna dell’autore non dimentica di additare altri colpevoli, non soltanto l’assenza di una classe politica degna di questo nome, di una democrazia stricto sensu o gli interessi biechi degli alti potentati industriali, ma anche il popolo. D’altra parte, come ormai arcinoto ed evidenziato da Arendt, nel suo monumentale saggio, non si trattava semplicemente di avere a che fare con masse povere, delle quali cavalcare il malcontento, quando si desidera individuare la base dei totalitarismi nella società di massa, si ha a che fare piuttosto con masse risentite e frustrate nel loro desiderio di ascesa sociale, quindi un’alta disponibilità a seguire i movimenti più radicali[5].
Sono pochi i personaggi ad emergere al di fuori del mostro in “M”
Nel romanzo i tratti irriducibili, diremmo anche sconclusionati e confusi di un’ideologia in continuo e opportunistico divenire, conferiscono un costante senso di opacità alle atmosfere, atto quasi ad obnubilare le descrizioni di gusto splatter delle bastonature e delle più variegate forme di violenza dei vari ras e squadristi.
Pochi personaggi emergono dalla palude in cui il mostro sguazza, occupando ogni spazio con il suo gigantesco ego e ricoprendo di lordura alleati e complici: Gabriele D’annunzio e la sua sposa vestita di bianco (Libertà dissolte Fiume), le rarefatte figure di Minzoni e Sturzo, l’amante Margherita Sarfatti, in grado forse più della presenza di una Chiesa almeno in parte attiva e di un monarca poco più che nominale, di rendere il fascismo totalitarismo imperfetto, attraverso quella sua sofisticata capacità di raffinare il grossolano uomo avido di potere alle seduzioni dell’arte, artefice fantasma della subliminale operazione di lasciare spazio aperto ad alcune avanguardie, e infine lui, Giacomo Matteotti (non dimenticando di fare menzione della grande dignità della moglie Velia).
La figura di Matteotti
Matteotti, unico lampo di bellezza malinconica, in un susseguirsi di brutture, non un eroe, non una figura antagonista, ma l’altrimenti del brutto, la dimensione invincibile, seppur invendicata, del bene e del giusto. L’immagine che non si lascia soffocare dalla vita offesa, prestata al lettore senza infingimenti retorici, con la sua dentatura rovinata e il suo corpo decomposto, in grado, però, di mettere prepotentemente sullo sfondo un orizzonte di senso, a cui teleologicamente informare le proprie vite, quello di resistere, a qualsiasi costo, per smascherare ciò che è profondamente ingiusto nell’esistente.
[1]Cfr. P. Montani, L’immaginazione intermediale. Perlustrare, rifigurare, testimoniare il mondo visibile, Laterza, Roma-Bari 2010, p. 32.
[2]A. Scurati, M. Il figlio del secolo, Bompiani, Milano 2018, p. 827.
[3]Cfr. N. Bobbio, Profilo ideologico del ‘900, Garzanti, Milano 1990, pp. 152-55 et 163-164.
[4]Cfr. S. Lupo, Il fascismo. La politica di un regime totalitario, Donzelli, Roma 2005.
[5]Cfr. H. Arendt , Le origini del totalitarismo, Bompiani, Milano 1978.
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