Frontiera Colombia-Venezuela

Di tutti i filosofi che ho studiato Hegel è senza dubbio quello che mi è piaciuto di meno. Suppongo faccia antipatia a tutti: non si è mai capito di che cosa parla, perché parla e a chi parla.
Per quanto possa sembrare astratto, però, dice una cosa molto semplice. E, ancora di più, estremamente vera.
Le idee sono vuote e senza carne se non sono comprovate, esaminate dai fatti e dall’esperienza, ciò che lui identifica con il nome di Storia. La Storia, per Hegel, è il banco di prova delle idee. Insomma, se le idee vacillano davanti alla storia, abbiamo, secondo Hegel, un problema.
Ora, io ho un’idea fissa da quando avevo 15 anni, che, seppur con qualche variazione, si è installata nella mia testa e non se n’è mai andata: sono anticapitalista militante, diciamo pure comunista. Ho preferito Marx a Hegel e ho finito così per vivere in un concetto senza storia.
Dovevo stare sulla frontiera Colombia-Venezuela per rendermi conto di aver veramente inteso cosa volesse dire Hegel con la sua affermazione sull’illegittimità dei pensieri che non passano il vaglio dell’esperienza. Avrei dovuto, forse, leggere con più attenzione lui e meno Marx.
Mi trovavo a cuta, una città colombiana di circa un milione di abitanti a nord-est della Colombia, esattamente sul confine con il Venezuela. Si tratta di una città particolarmente brutta, dove il caldo afoso tutto l’anno e il cemento si fondono in un abbraccio post-industriale e senza bellezza. Tuttavia se parli con i cucutensi ti dicono che la loro città era ricca, vivibile, sicura, tranquilla prima che arrivassero i venezuelani-barbari.
Le impressioni di una città, l’idea che di essa ti fai sembrerebbero non essere disconnesse con le sue vicende storiche. Ad ogni modo, per quanto mi sforzi non riesco a immaginare una Cúcuta bella: il cielo è basso e grigio, ci sono sempre 30 gradi tutto l’anno e le decorazioni di Natale mi sembrano eccessive, anacronistiche, quasi inopportune. Quando si alza il vento, poi, la situazione non migliora: se fai attenzione riesci a sentire il pianto e il malessere dei vicini di casa venezuelani.
Questa situazione venezuelana risulta a noi italiani un po’ vaga. Si sente dire che il presidente Maduro è pazzo, si legge nei giornali che sta distruggendo il paese o, al contrario, una certa sinistra lo presenta come un presidente amato e rispettato che sta traghettando lo Stato verso un socialismo avanzato e sul modello cubano.
Poi ci sono i venezuelani e li trovi in tutte le città colombiane. Sono di tutte le età, adulti, anziani, ragazzi, salgono sugli autobus e chiedono l’elemosina. Ma, soprattutto, hanno bisogno di parlare. Prima di porgere la mano vi raccontano la loro storia, vi spiegano che hanno perso qualsiasi cosa: uno stava lavorando in banca ma poi lo hanno licenziato, un altro è uno studente di economia che non può finire gli studi, un’altra è una mamma di famiglia che va in giro con la sua bimba perché ha fame, un altro è un papà che manda i soldi al resto della famiglia rimasta in Venezuela. Non vogliono parlare male del loro Paese, bensì dei loro governanti (al plurale), vi consigliano di scegliere bene chi governa e di tener cuidado con le imminenti elezioni qui in Colombia. Sostengono che in questo momento il 90% dei venezuelani è sotto il livello minino di povertà e fanno quasi tutti lo stesso esempio: un uovo costa 40.000 bolivares/il salario minimo 25.000. Vi chiedono scusa, vi salutano con dolcezza, vi dicono che sono consapevoli di essere tanti (troppi) a chiedere, ma vi chiedono di essere guardati negli occhi e di essere ascoltati, ammettono che gli dispiace disturbare (disculpe la molestia) ma nel caso in cui qualcuno fosse così gentile da “colaborare con una monedita que Dios lo bendiga”.
Alcuni offrono “servizi”, tipo cantare o suonare la chitarra per sentire meno l’umiliazione di chiedere senza dare nulla in cambio; altri vendono qualcosa, come caramelle, cioccolate, dolciumi vari e perfino i biglietti di bolivares (la loro moneta). Una volta mi è passato per la mente di comprarli, così, giusto per ricordo, poi però mi sono detta che non aveva senso acquistare denaro con denaro e ho lasciato perdere. Troppe idee e poca storia.
In Venezuela, dunque, sta succedendo qualcosa: non si capisce bene cosa. Nei giornali è tutto opaco e Maduro viene tacciato di essere un dittatore ignorante, incapace, ma assatanato di potere. Chi protesta sembra scomparire e chi manifesta sembra non finire bene. Idee vaghe, senza esperienza.
Se è di sinistra, continuo a pensare nella mia testa anche quando mi trovo in una discussione tra colombiani agguerriti che dicono che l’unica alternativa è “matarlo”, non sarà poi così male. Questi colombiani ultra-neoliberali e filostatunitensi non amano la sinistra che per loro significa immediatamente dittatura, violenza, stragi di innocenti e guerriglia nella selva.
Non è fedeltà religiosa la mia, ma solo l’idea senza concetto di Hegel.

Cucuta
Lado colombiano del puente internacional Simón Bolívar, en la frontera con Venezuela. Foto: David Ramos / ACI Prensa

Sono le 11 di mattina del 27 dicembre, sono in macchina con il papà di Elías, il mio ragazzo colombiano, che ci sta accompagnando alla frontiera. Lui e Elías sono preoccupati, il loro volto è teso, scambiano solo rapidi commenti tra i denti. Il papà ci dà per lo più raccomandazioni, ma, nello stesso tempo, cerca di rassicurarci: andrà tutto bene, fate attenzione a chi vi si avvicina, non fidatevi nemmeno della polizia, che è la più corrotta. Non c’è da preoccuparsi, avete il contatto dello zio, lui vi aiuterà a passare, sa bene cosa fare visto che lo fa tutti i giorni.
Io che, per sicurezza, non mi sono portata nemmeno il cellulare appresso e che non ho detto a nessuno che cosa sto andando a fare, in Venezuela, due giorni dopo Natale, provo un sentimento vago di ansia, non saprei dire perché, mi hanno detto che sto per fare una cosa rischiosa e quindi mi preoccupo.
Ancora una volta sensazioni cieche frutto di una superficiale conoscenza del reale.
Quando scendo dalla macchina, l’aria condizionata che si mescola all’aria calda e appiccicosa della mattina mi dà l’impressione di essere annegata nella storia. Il quadro intorno è a dir poco desolante. Più che una frontiera sembra la spazzatura dell’umanità. Gli occhi fanno fatica a sopportare tutta quella confusione: mentre dobbiamo fare slalom tra taxi gialli e macchine imbottigliate, la prima cosa che attira la mia attenzione sono i venditori ambulanti, carretti mobili e bancarelle con le ruote.
Non posso fare a meno di pensare che questa peculiarità tutta colombiana di vendere qualsiasi cosa (ed è veramente qualsiasi cosa) per strada non si perde nemmeno sulla frontiera.
“Eccerto – mi dice Elías – questa di Cúcuta/San Antonio è la frontiera più pericolosa, proprio perché passa tutto il traffico illegale”.
“Benissimo, cominciamo bene” penso io, rallegrandomi di non avere cellulare.
Una vecchia ci urla se vogliamo un’insalata di frutta, un altro si avvicina per venderci ago e filo (alla frontiera?), un altro ci offre avocado. A destra e a sinistra ci sono baracchini di cibo e bevande con insegne pericolanti, ma luminose. Costruzioni di cemento fatiscenti basse e senza tetto, edifici più alti con le finestre rotte nascondono stradine laterali, mentre, al centro di fronte a noi, si apre la “parada”, il quartiere che giace intorno alla frontiera. A terra è pieno di sporcizia e spazzatura di ogni tipo: carcasse di macchine, vetri rotte, bottiglie, casse rotte, fogli di giornali, pezzi di cartone, vecchi frigoriferi e resti cibo. Non so dove guardare: sul lato destro una vecchia, che stava riposando in mezzo a rotte valigie, allontana un cane con una ciabatta lercia, e ciò provoca l’ilarità di un gruppo di uomini che stava discutendo in capannello. Sul lato destro, appollaiati sui marciapiedi, file di persone aspettano qualcosa, un bambino così sporco da sembrare scuro di pelle raccoglie spazzatura per terra, alcuni mangiano, altri bevono. Gruppi di persone stazionano per terra, gruppi di signore e ragazze con valigie vuote si dirigono verso Cucuta. Si percepisce un rumore strano, forse musica da lontano, o forse è il generale fracasso intorno. È tutto sporco, un cane che sembra appestato beve da una pozza di acqua, mentre dobbiamo evitare signori scuri come l’ebano che ci propongono un taxi, o un aiuto, o non-so-cosa.
Su di noi domina un altro cielo, diverso da quello della città; anche questo dà l’impressione di essere sporco, sudicio. Una ragazza, con un cappello a visiera e un marsupio mezzo sbrindellato mi guarda e mi propone dei lecca-lecca fucsia metallizzato, la ignoro, mi maledice e se ne va.
Faccio una giravolta su me stessa e riesco solo a pronunciare “O mio dio!” e mi rivolgo a Elías in italiano, in cerca di conferma al mio stupore.
Lui mi prende per mano e mi trascina via rapidamente per farmi camminare più veloce: “Non siamo qui per turistiare, mi dice, smetti di fare quella faccia da tonta e non parlare”.
“Ma come non parlare! Tanto non mi capiscono” protesto io.
“Shh!!! Appunto, non devono sentire che sei italiana!”. E quest’ultima cosa me la dice mentre ci inoltriamo in questo inferno caotico che assomiglia all’isola ecologica di una città, e non posso parlare con nessuno delle mie impressioni e da questo momento in poi devo anche evitare di fare una faccia da straniera perché altrimenti “se ne accorgono”.
Non devo essere molto brava come attrice perché adesso ho l’impressione che tutti mi guardino e mi tormenta l’idea che pensino che li sto giudicando o li sto schifando o peggio ancora che ho paura.
Idee senza storia.

Frontera
Foto tratta da diariolasamericas.com

Camminiamo in direzione degli uffici della dogana ma non sappiamo dove metterci per aspettare il nostro contatto, che Elías sta provando a chiamare già da un po’.
Ci fermiamo sotto a una specie di ponte, che crea una buona e larga ombra, fa caldissimo, ci saranno 28 gradi per lo meno. Attorno costruzioni con finestre serrate e lasciate all’abbandono, forse vecchi uffici, chissà. Tutto, ma proprio tutto, è brutto, pure i pochi e radi alberi che spuntano in qualche piazzola verde appaiono stanchi, demoralizzati, agonizzanti.
“Stai attento con quel cellulare, che questi pure i denti ti rubano e manco te ne accorgi”. Gli dico.
Mentre mi ignora mi rendo conto di aver pronunciato la frase più razzista che abbia mai detto e mentre me ne pento mi passa davanti una fila di persone di tutte le età con zaini, valigie e borsoni vuoti.
Si, le idee vengono fomentate dalla storia.
Quando arriva il “nostro contatto”, a vederlo mi sento nello stesso tempo delusa e rassicurata. Ci raggiunge: è un ometto alto 1,55, ha un ventre prominente e un baffetto nero e lucido. Assomiglia a Mario Bros. e questa cosa mi fa sorridere. Si presenta cordialmente ma non fa tante moine, dobbiamo essere rapidi, ha l’aria di chi non ha voglia di perdere tempo. Ci dice, anzi in realtà parla solo con Elías – per quel che mi riguarda, dopo avermi dato dell’argentina, non mi calcola più – di non preoccuparci che almeno un milione di persone attraversano ogni giorno il ponte, che andrà tutto liscio come l’olio. E ride con una risata acuta ed esageratamente accentuata per il clima di disastro che c’è intorno e mentre ride si gratta il baffetto con la lunghissima unghia del mignolo.
“Che schifo”. Penso.
Così io resto ancora più sola in mezzo a queste baracche di cemento nel deserto, in mezzo ai miei commenti razzisti e alle mie facce inevitabilmente disgustate.
La prima tappa è cambiare i pesos in bolivares. Dopo aver imboccato una stradina che si apre a sinistra di un’ennesima casetta serrata, svoltato vari angoli di carretti con banane e prostitute, ed evitato di urtare la folla in movimento, Mario Bros. ci conduce in un negozietto di sua fiducia. Il proprietario che sta proprio sulla soglia, annoiato, appena ci vede si anima un po’ accennando un mezzo sorriso. Entrano, io invece rimango fuori. La mia attenzione è catturata adesso dalle difficili manovre che un gran camion sta facendo per superare una curva e immettersi in una strada un po’ più larga che si trova proprio di fronte a me. Suona con il clacson e produce per tutta risposta urla e gesti della gente attorno.
Si respira l’attività frenetica di una povera periferia di una città povera mischiata alla puzza acre di piscio, di pozzanghere e di fogna.
Sì, in questa frontiera devono succedere un sacco di cose. Losche.
Le mie opinioni sono ogni minuto sempre più nebbiose e sporche, proprio come il posto in cui le partorisco.
Mi sembra inevitabile non avere più un’idea chiara su niente, anzi di non avere un’idea. Questa sensazione mi accompagnerà fino a domani, come un’interruzione di un programma televisivo, come quando stai vedendo un film in HD ed improvvisamente il segnale si interrompe, l’immagine si sgrana, fino a perdersi del tutto. Due giorni sulla frontiera in Venezuela sono bastati a farmi perdere il mio canale, il mio bel film nitido e colori.
Elías gli consegna 80.000 pesos e riceve 1 milione e mezzo di Bolivares, un fascio di biglietti dello spessore di un libro di 300 pagine. Faccio il calcolo: nemmeno 24 euro.
“Il denaro del Venezuela sta perdendo valore, Maduro sta stampando moneta e adesso non vale più niente”. Commenta il nostro Virgilio che ha il compito di condurci dall’altra parte della frontiera, nel paese di San Antonio, e di lasciarci nelle mani di altri amici degli amici dell’amico dello zio di Elías che ci porteranno in una casa in cui passeremo la notte. Con una chiamata il giorno prima lo zio ha mosso una rete di persone tutte a nostra disposizione. Questa spiegazione vaga è esattamente la quantità di informazioni che io possiedo.
Non si passa alla frontiera con il Venezuela se non hai qualche angelo custode, quindi.
Non so che professione faccia il signore che ci guida e non posso neanche chiederglielo visto che non ho il permesso di parlare.
L’unica volta che ho provato a pronunciare una parola, quando praticamente stavamo davanti al casotto della dogana colombiana, Mario Bros. ha detto a Elías di dirmi di non parlare. So che il mio spagnolo non è buono e che sono evidentemente straniera, ma continuo a pensare che stiano esagerando. Sono una straniera, e mi trovo ad una frontiera: chi dovrebbe esserci alla frontiera se non una straniera?
Supposizioni senza fatti.
Quella frontiera è dei venezuelani per i venezuelani.
Loro in qualche modo ne hanno il possesso e hanno assunto un ruolo privilegiato. Mario Bros. ci spiega che ogni giorno, a causa della crisi economica che ha investito il paese, un numero spropositato di persone, almeno 25.000, attraversa la frontiera, esce dal Venezuela e si dirige a Cucuta per fare la spesa. Non la spesa di prodotti eccezionali, ma di beni di prima necessità, come il riso – alimento fondamentale nella dieta Sud-Americana – o la carta igienica.
“Risooo?!?”
Capisco che questa notizia deve essere abbastanza sconcertante dal fatto che Elías resta di stucco e si blocca con gli occhi spalancati.
“Sì, sì, sì. In Venezuela è finito tutto. Non c’è rimasto più niente. Neanche il riso”.
Elías rimane pensieroso a fissare il vuoto mentre la nostra guida continua: “Quella del Venezuela si può definire senza dubbio un’emergenza umanitaria. La situazione è a dir poco drammatica. Le persone hanno perso tutto, e la cosa sconcertante è che non se ne possono neanche andare perché non hanno i soldi per mantenersi in un altro Stato. Sono con le mani legate, se se ne vogliono andare – y por supuesto que sì – non possono, perché nessuno compra la loro casa, i risparmi non esistono e il loro denaro non ha nessun valore altrove. Inoltre non vengono riconosciuti come profughi, non hanno nessuno statuto, e soprattutto la Colombia già non li vuole perché sono troppi. Troppe bocche da sfamare, che non sappiamo più dove mettere. Se vogliono restare, sono condannati a morire di fame”.
E ci racconta la storia di una sua amica venezuelana, una signora di oltre sessant’anni, pensionata, che vorrebbe spostarsi in Colombia, dove ha una parte della sua famiglia, ma è disperata perché la casa non la può vendere e la sua pensione in Colombia corrisponde a 10.000 pesos (3 euro circa).
“Ma anche chi i soldi continua a averceli non se la passa bene. Che ti serve essere ricco, se vivi in un posto in cui il tuo denaro non ha più valore e non sai come e dove spenderlo? Non ti puoi curare se stai male perché la sanità, gli ospedali sono alla canna del gas, non puoi andare a mangiare nei ristoranti perché c’è poco cibo, e scaduto, non puoi divertirti, non puoi fare niente”.
“Allora vedi che il denaro non ha senso?”, rifletto tra me e me.
“Sì, questo è vero – lo interrompe Elías come se stesse collocando nella giusta posizione pezzi del suo puzzle – e la cosa più grave è che tutta la campagna elettorale delle destre si sta giocando proprio su questa tematica dell’emergenza Venezuela. Stanno proponendo di militarizzare o, meglio, di chiudere le frontiere… L’altro giorno ne stavo discutendo con mio cugino e mi sono incazzato con lui perché ha incominciato a fare tutto un discorso razzista e estremista sul fatto che li dobbiamo cacciare dal nostro Paese, che loro ci odiano, e quando c’è stato bisogno non ci hanno mai aiutato, e che non possiamo fare nulla per loro perché non abbiamo lavoro, e, se c’è lavoro in Colombia, dobbiamo dare la precedenza al colombiano. E portava come esempio il fatto che prima, quando ti fermavi al semaforo, si sentiva l’accento colombiano; al contrario, da qualche tempo, la gente che ti lava i vetri, per esempio, parla venezuelano. Ai semafori incontri solo loro, faceva mio cugino. Stanno togliendo il posto ai colombiani. Oppure quelli che lavorano onestamente arrivano e buttano giù i prezzi della concorrenza, tagliando i capelli a 5.000 pesos invece che a 20.000. Logico che alla fine tutti vanno dai venezuelani”.
E continua raccontando: “Di fronte a queste affermazioni naziste non ci ho visto più e gli ho proprio urlato contro: ‘Ora mi stai dicendo che il problema è che i venezuelani hanno rubato il posto del semaforo ai nostri connazionali?!? Cioè secondo te il problema è che ci sono i venezuelani al semaforo e non i colombiani?!? Rivogliamo i nostri connazionali al semaforo a chiedere l’elemosina! E che ognuno chieda soldi a casa sua! Ti pare possibile? Ti viene in mente che la questione è l’elemosina e il semaforo a prescindere dalla nazionalità di chi ci sta?’”.
Lo dice tutto di un fiato e ancora mentre ci pensa si fa paonazzo. Mario Bros. lo segue ma non si scompone, sta attento ma non controbatte.
“No, è proprio la prospettiva che è capovolta” continua Elías proclamando: “Questa guerra tra poveri ha un solo nemico comune: l’estrema povertà e l’estrema disuguaglianza sociale da cui siamo sommersi ogni giorno! E non è chiudendo le frontiere che si risolve il problema”.
Quando Elías aveva pronunciato queste parole di fronte a suo cugino, non aveva ancora visto che cosa era una frontiera di terra. Ora, mentre parlava con Mario Bros., i suoi occhi si riempivano di storia e vedeva crescere la certezza di aver pensato correttamente.
Quello che sembrava per me più strano è che nessuna delle sue affermazioni, dalla sua posizione colombiana, andava in direzione di un comunismo a-venire, come lo chiamerebbe Toni Negri. Al contrario, di fronte a quello spettacolo di miseria in cammino (a-venire), l’unica cosa che cresceva in lui era la convinzione che il comunismo fa male, non risolve le cose, è il male. Tu non puoi dire a un colombiano di essere comunista, è impossibile, in qualche modo anti-storico. È una parola troppo sporca, macchiata di sangue e violenza, che nasconde una lunga scia di corruzione, opportunismo politico, carrierismo e dittatura. Ecco la parola chiave: dittatura.
“È inutile che ti esalti – mi dice quando io mi vanto di essere riuscita ad “anticapitalistizzarlo” – io non sarò mai comunista. A me piacciono i soldi e io ne voglio. Il comunismo è solo povertà e miseria generalizzata. Quello che vorrei è vivere in un paese in cui la differenza tra i ricchi e i poveri non sia così enorme, in una città in cui non ci siano zone di tolleranza, zone in cui non è possibile andare perché non ne esci vivo, in uno Stato dove non ci siano caste. Tu lo sai che la Colombia è tra i tre paesi che ha il più alto gap sociale?”
“Tipo India” rispondo io. Peggio.
“Bene, io sono e sarò sempre comunista, anche se il termine è passato di moda”, affermavo baldanzosa io.

Frontiera
People cross to Venezuela over the Simon Bolivar international bridge after shopping in Cucuta, Colombia December 1, 2016. REUTERS/Marco Bello

È quasi l’una quando ci incamminiamo lungo il suggestivo ponte Simon Bolivar, di poco meno di un chilometro, che separa ufficialmente Colombia e Venezuela. Si stende su un ex-fiume, quasi completamente secco a causa della siccità e ricoperto quasi interamente da erbacce e sterpaglie. Mario Bros. non interagisce più con noi, cammina a passo spedito, quasi militare, non voltandosi mai indietro. Io invece non posso fare a meno di guardare negli occhi questa umanità che mi passa a fianco, questa processione di umanità dolente, ferita, ostile. Mi guardano, forse perché sono bianca e pulita rispetto al loro sudiciume. Camminano tutti in direzione contraria rispetto alla nostra, in pellegrinaggio quotidiano verso la Colombia.
Non c’è un solo punto in cui guardare per trovare conforto, rassicurazione, o anche solo un secondo di tregua. La folla interminabile, la natura intorno morta, il sole ardente, e dagli spazi più inaspettati spunta gente che ha eluso i controlli e si arrampica sul ponte dal fiume secco. Dappertutto sento un senso diffuso di minaccia, ho come l’impressione che qualsiasi cosa intorno mi intimidisca, non mi sento al sicuro, non mi sento protetta. Sola, sola, sola.
Una volta terminato il ponte e messo piede ufficialmente in Venezuela veniamo investiti da un altro particolare spaventoso: un enorme cartellone con su scritto “Qui non si parla male di Chavez” campeggia sopra l’ufficio migrazione. Mi fermo, lo leggo quasi sillabando, inebetita e confusa.
Questa non è la sinistra.
La storia ha investito le mie idee e le sta schiacciando per bene.
Mentre aspetto che mi timbrino sul passaporto l’entrata in Venezuela, mi guardo intorno meditativa: sono comunista io? E me lo chiedo e me lo ripeto come fosse un mantra: sono comunista?
Perché nella mia mente, le mie idee senza storia, il comunismo è liberazione, uguaglianza, giustizia sociale, gioia, potenza, ricchezza diffusa, benessere, felicità, lavorare meno per lavorare tutti.
Qui ho di fronte la risacca umana di uno Stato socialista, e di fronte a me vedo solo povertà, anzi peggio, vedo gente povera, non vedo il concetto di povertà bensì vera gente povera, un vero corpo indigente, con occhi acquosi e languidi e con le mani vuote.
Vedo gente senza un futuro che vive in questo eterno presente della frontiera, un infinito andirivieni, un solo stomaco che langue per essere riempito e che cerca tutti gli espedienti per farlo. Vedo gente allo stato brado, quasi in cattività, che ti scruta come un nemico, ti studia imperturbabile, che non prova nemmeno rabbia, ma solo rassegnazione. La rassegnazione del presente.
Mia mamma, che conosce a memoria I Promessi Sposi, suole recitare un passo che a me ha fatto sempre venire i brividi. Manzoni deve descrivere la camminata di Fra Cristoforo nel borgo che porta alla casa di Don Rodrigo e lo fa con queste parole: “Le persone che circondavano il palazzotto erano tarchiati e arcigni, con un gran ciuffo sul capo, oppure vecchi che, perdute le zanne, sembravano sempre pronti a digrignare le gengive, donne con facce maschie e braccia nerborute (…) perfino i fanciulli avevano un non so che di petulante e provocatorio”.
Ho visto i vecchi digrignare le gengive, omoni arcigni, donne con facce maschie e bambini con fare petulante e provocatorio e ho dovuto riconoscere che no, non avevano nulla della forza-lavoro dionisiaca di Toni Negri.
E la democrazia insorgente? L’avvenire in potenza? La potenza del lavoro vivo?
Dove sono Toni Negri, Tronti, Lazzarato, Virno, i post-operaisti e tutta la teoria di cui mi sono cibata? Dov’è il mio Marx?
Non mi viene in soccorso.
Quello che vedo in Venezuela non sembra quello che ho letto. Le idee non corrispondono ai fatti.
Come se Elías stesse seguendo il filo dei miei pensieri durante la nostra passeggiata per il girone dell’inferno di San Antonio, si rivolge a me tutto spavaldo: “Guarda, guarda com’è bello il tuo comunismo!”.
E lo odio un po’, perché ho l’impressione che si stia divertendo a vedermi barcollare, a sentirmi così profondamente scossa di fronte ai fatti. Di fronte al fatto che nei negozi non c’è nulla da mangiare, e che sono praticamente vuoti, non c’è nessun tipo di merce, che i cani la fanno da padrone come avvoltoi sulle carcasse di spazzatura.
Passiamo di fronte a un negozio di vestiti senza vestiti, con le vetrine completamente vuote e solo tre jeans esposti. All’interno due donne annoiate ci guardano. Sebbene sia evidente che veniamo da un altro posto e che siamo inoffensivi, nessuno ci rivolge parola o ci saluta, al contrario alcuni ci fissano con un fare diffidente, quasi a chiedersi “Che sono venuti a fare i turisti, questi due?”; altri ci ignorano come se non ci vedessero, affaccendati a fare cose. Si sta come dentro un “caos calmo” che mi fa sentire a disagio e mi provoca un indefinito malessere.
“Hanno fissato il prezzo dei beni di prima necessità, però a prezzi tanto bassi che sono stati i negozianti stessi ad aver creato il mercato nero per poter vendere i prodotti ad un prezzo più alto. Se tu gli chiedi se hanno una cosa, tipo un pacchetto di sigarette – ci spiega Mario Bros. – loro ti rispondono di no. E lo fanno per venderlo al mercato nero”.
Ci imbattiamo in un mini-market e poi in un altro e ancora un altro, e il quadro è il medesimo: mensole vuote, vetrine vuote, barattoli vuoti e i proprietari che guardano le mosche.
Elías vuole entrare dappertutto: “Voglio vedere se quello che dice il signore di oggi è vero”.
L’unico posto dove si può comprare qualcosa è la strada. C’è un proliferare di bancarelle di vario tipo, anche di cose da mangiare: frutta (avocado, mango, ananas), bevande (tè, caffè, agua de panela, succhi), finger food (emapanadas, arepas). Noi compriamo cose solo per il gusto di spendere i bolivares che abbiamo e per mettere alla prova le parole della nostra guida.
Accanto a noi un ragazzo paga una coca-cola del prezzo di 13.000 bolivares con due fasci enormi di carta stampata. Ciò mi ricorda quando a scuola, studiando la crisi della Germania del dopoguerra, leggevo sul manuale che l’inflazione aveva raggiunto livelli così alti che per comprare un cartone di latte si doveva uscire con una valigia piena di soldi.
“Wow, come nella crisi del ’29!” e ancora una volta i miei pensieri si trovano come per incantesimo imprigionati nei libri.
“Questo non è il comunismo, non è il MIO comunismo, il vero comunismo marxiano non si è mai veramente verificato… Questo è l’effetto della crisi petrolifera, dell’inflazione, del debito pubblico e di questo sistema economico di merda…”, e non continuo perché non ho il coraggio e non so cosa dire. Le parole mi sembrano tanto inutili e ridondanti che mi fanno eco nella testa. Le mie idee si sono confuse con i fatti e ora ho nella testa solo una melma sozza che non mi fa più riconoscere la verità dalla menzogna e mi confonde.
Ovvio, è una dittatura questa… certamente. E mica mi piacciono i dittatori a me.
“Se questa è la città di frontiera, ed è così, e hai visto quanto poco dista Cucuta, immagina come deve essere Caracas, la capitale” rincara la dose Elías mentre beviamo una birra (c’è solo una marca) e fumiamo una sigaretta seduti sul bordo di un marciapiede.
Io penso all’Italia, quanto è lontana in questo momento la mia Italia e i miei amici tifosi di Chavez e di Maduro, i miei amici di sinistra belli “stella-rossa” che parlano del Venezuela come di un esempio da seguire. Evidentemente non sanno di che parlano. Mi risuonano in testa le parole di Wittgenstein: “Di ciò di cui non sai, taci”. E mi sento ancora più inadeguata: sono in Venezuela, seduta su un marciapiede con una birra in mano e me la passo raccogliendo citazioni filosofiche e letterarie. No, non so proprio come si deve stare davanti alla miseria.
Elías intanto – adesso ha voglia di commentare, ma più che con me, riflette ad alta voce: “Mi diceva il signore di stamattina che si mormora che stiano scomparendo i cani perché se li stanno mangiando”.
E nel frattempo ci passano davanti autobus, camionette, macchine, moto stracariche di persone che fanno la spola ogni santo giorno dai paesi dell’interno. Perfino sulla moto ci sono più passeggeri di quanto è normalmente immaginabile. Ne vediamo una con il conduttore, papà, la mamma e due bambini stretti a sandwich nel mezzo.
Una specie di auto-deportazione quotidiana.
Hannah Arendt parlava di statuto del profugo, dell’apolide, come colui che ha il diritto di avere diritti, Agamben al contrario dice che il profugo, il migrante, il tipo di Auschwitz è nuda vita, completamente consegnata al Potere e fuori dal diritto (il diritto a non avere diritti), perché da sempre e per sempre dentro (il diritto) nella forma della esclusione.
Bah.

Colombia
Foto tratta da eldiariohabla.com

Questi profughi-migranti-quotidiani-che-hanno-solo-fame, hanno una “cedula fronteriza” speciale che li fa andare per poi tornare, una specie di passaporto temporaneo che li fa uscire solo con la clausola che se ne andranno e torneranno nella miseria da cui sono venuti. È una migrazione ben strana questa della frontiera, che li classifica come persone inclassificabili, gente di frontiera, la gente che sta sulla soglia, sul limite tra l’andare a buscare da mangiare a proprio rischio e pericolo e il morire di fame, o al più mangiarsi il cane.
Sì, perché affrontare il confine ogni giorno mica è cosa facile. Devi fare file, file e file, e ancora file. Il peggiore volto della burocrazia statale. E devi stare sempre all’erta, devi essere rapido, non dare conto a nessuno.
Chiedo a Elías che ore sono.
“Le cinque” mi risponde.
“E perché sta già facendo notte?”
“Perché Maduro ha spostato in avanti gli orologi di mezz’ora per risparmiare energia elettrica visto che hanno finito pure quella. È un’altra delle sue follie. Anche se, secondo me, vuole essere più una dimostrazione di potere… A proposito, spostiamoci e andiamo a cercare qualcosa da mangiare che io non voglio camminare qua di notte. Restiamo in giro fino alle sette, dopo direi che non ci conviene”.
Annuisco e ci rimettiamo a “gironzolare” per le strade, che iniziano a riempirsi di buio. Col progressivo crescere della notte diminuisce proporzionalmente il numero di persone che la abitano, e in men che non si dica si diffonde un clima piuttosto spettrale che ci fa sempre meno stare sereni: “Hai visto che non c’è nemmeno un addobbo di Natale?”. Sembriamo immersi in un tempo senza tempo, nessun segnale di festa, nessuna luce dentro le case. Perfino l’illuminazione elettrica è scarsa e fioca, laddove non è del tutto assente. Allora era vero anche quello.
In serata rientrano i pellegrini del supermercato, un corteo silenzioso che marcia rapidamente trascinando il bottino di viveri. Hanno la faccia stanca e distrutta.
Noi siamo seduti ad un tavolino di un pericolante chiosco e con fare guardingo e irrequieto ingurgitiamo il nostro “perro caliente” quando qualcuno finalmente ci rivolge la parola. Un signore, vecchio e maleodorante, si avvicina e ci implora con gli unici due denti che gli sono rimasti di dargli una moneta, “por favor patron, benediciones, tengo hambre, que le vaya bien e que Dio me los bendiga”.
Nessun segno della felicità comunista.
Quando il giorno seguente dobbiamo percorrere il cammino contrario, uscire dal Venezuela e rientrare in Colombia in modo da poter ottenere un permesso di permanenza della durata di 90 giorni, ci troviamo davanti una coda infinita. Un serpente umano di sudore, valigie e impazienza. Se all’andata non avevamo incontrato tutto sommato tanti problemi, adesso l’uscita si prospettava lunga e preoccupante. Io sono un fascio di nervi, mi immagino già imprigionata in Venezuela a cercare aiuto all’ambasciata italiana. Naturalmente esagero, ma è chiaro che niente della situazione intorno contribuisce a rasserenarmi.
Neanche il sole a picco sulla nostra testa, è mezzogiorno, aiuta.
Penso, non ce la faccio più, fare la migrante non mi piace e non mi sento a mio agio in mezzo a questa gente. Mi sento arrabbiata con tutti quanti, e principalmente con me stessa perché non so reagire appropriatamente, non so stare in questa “cosa”. Perché come bisogna stare sulla frontiera? Mannaggia a me che ho accettato di farlo.
Ad un certo punto un tizio, anzi due, che costeggiano i due lati della lunga fila sussurrano “VIP, VIP”, “servizio Vip”. Immediatamente Elías, che deve aver inteso il mio sguardo interrogativo, mi spiega: “Ti danno un servizio privilegiato se li paghi”.
“Cioè ti fanno saltare la fila?”
“Sì, qualcosa del genere”.
Facciamolo, esorto io, senza un filo di esitazione. Sono decisa a terminare presto con questo incubo anche pagando qualsiasi cosa, pur di tornare a casa dalle mie calde, rassicuranti, idee. Dai miei discorsi belli tondi e ragionevoli, come cantano i CCCP.
Elías mi asseconda, si avvicina a uno dei tizi per chiedere informazioni e prezzo. Si tratta di persone che da qualche ora, a turno, occupano i primi posti della fila e te lo cedono vendendolo alla modica cifra di 200.000 bolivares. Ora magicamente occupiamo il 5 posto della coda. È stato tutto rapido e cospirativo, la compravendita dei posti è, non vale la pena dirlo, illegale e si deve essere il più possibile discreti per non far sospettare la polizia. Il tizio non ha capito che io sono straniera e mi dice cose, mi dà indicazioni e mi sgrida con gli occhi perché non mi sono messa nel posto corretto. Risolve tutto Elías, si mettono d’accordo e quadrano il patto con una prossemica e una gestualità tutta latina, laddove io penso che se fossi stata da sola l’unica cosa che avrei fatto sarebbe stata piangere in un angolo.
Decisamente questa non è una frontiera per europei, o per lo meno per me, una ragazza cresciuta sui libri. Non mi sono mai sentita così straniera, così europea e così “figlia di papà” come in questo momento.
Ma sono stanca di fare domande, non capisco nulla di quello che succede e mi arrendo di fronte a questa condizione di totale estraniamento.
Ho capito che le file si saltano pagando, che per sopravvivere si sono inventati come lavoro “l’occupatore di posto” e che anche chi ha poco denaro dietro, come noi, fa la figura del Rockefeller in un posto come questo. Io, che sono, o forse ero, comunista, ho agito come la più capitalista di tutti.
“Probabilmente ci hanno fregato un sacco di soldi” – dice sorridendo Elías – “vabbè, ma chi se ne frega, sono l’equivalente di 10.000 pesos!”.
“Perché lo pensi?”
“Perché hanno capito che io ero colombiano e tu straniera, e ci avranno probabilmente triplicato la quota”. E lo dice a cuor leggero, perché a lui 10.000 pesos non cambiano la vita, mentre per un venezuelano sono un sacco di soldi. “È come se gli avessimo dato 300 euro. Ma tanto questo calcolo non ha molto senso, perché qui il valore del denaro è completamente saltato in aria”.
Ho capito anche che se hai conoscenze riesci a sopravvivere alla frontiera, ma che se ti spacci per colombiano ti riservano un comportamento diverso, con qualche privilegio nella parte colombiana, con qualche fregatura in Venezuela.
Ho capito che i colombiani stanno sfruttando pienamente la situazione per costruirsi un nemico e una propaganda durante la campagna elettorale. “Il voto del colombiano è un voto di pancia, emotivo, emozionale. Ti ricordi quello che diceva mio cugino l’altro giorno? Quello è esattamente il frutto della strategia elettorale della destra di Uribe che non fa altro che ripetere che i venezuelani ci stanno invadendo, che vengono solo a rubare, a portare disordine, a ‘violare’ le nostre donne, e che se non chiudiamo le frontiere e non militarizziamo il nostro paese ‘loro’ ci attaccheranno la loro peste. La destra li tratta come lebbrosi” mi spiega Elías mentre siamo ormai del tutto fuori dalla zona dei controlli.
Vota porque Colombia no se convierta en una nueva Venezuela”.
Un venezuelano che cammina per le strade di Bogotà, oggi, legge questo tipo di manifesto.
Ed è proprio per questo motivo, senza dubbio, che tornare a casa propria resta sempre il desiderio più grande.
Meglio morire di fame nel paese, che schiattare alla parada o sopravvivere all’indignazione, all’indifferenza o ancora peggio alla compassione dei colombiani di Bogotà.
Aguantare hambre” come dicono loro, però nel proprio Stato, appare un piano più accattivante se confrontato con il finire a dormire per terra nei brutti parchi di Cucuta, aspettando che la kafkiana normativa ti affibbi lo statuto di rifugiato, profugo, scappato di casa, morto di fame, povero pezzente, nuda vita negli stati di eccezione di Agamben.
Troppo facile risolvere tutto con la filosofia. La filosofia non esplica la realtà, la impacchetta in frasette semplici semplici, che non mi aiutano a comprenderla e a tradurla in verità. I miei cari, amati autori mi hanno immunizzato dalla realtà, aiutandomi solo a nascondermi di più, piuttosto che a prendere posizione.
Ancora peggio: non ho saputo dire nulla di intelligente di fronte alla mia crisi.

Frontiera Colombia-Venezuela
Foto tratta da revistasic.gumilla.org

E la mia crisi è stata delle più forti, inaspettate e violente quando, subito dopo aver ottenuto sul passaporto il bollo di uscita del Venezuela, mentre Elías non la smetteva di dirmi di sbrigarci perché “qua intorno non è sicuro per niente, guarda quanta polizia c’è!”, sono svenuta. Sono svenuta, così, semplicemente e improvvisamente. Senza avvisare, la luce abbagliante da cui eravamo circondati, gli occhi di fame della gente, la massa di persone sedute a terra e quelle della fila che ci lasciavamo dietro sono scomparse; nella voce di Elías immersa nel buio più nero, ho sentito il mio corpo crollare, tutta la tensione sciogliersi e sono precipitata in un vuoto niente, caduta a terra di fronte a lui e a tutti. Non ce l’ho fatta, non ho retto, mi sono abbattuta.
L’ultima cosa che sono riuscita a sentire è stato “Ti prego, ti prego non morire qua, muori in Colombia, mancano 100 metri, cazzo!!!”, e poi blackout.
Ho ripreso conoscenza sul ciglio della strada, tra una signora che vendeva agua de panela e una ragazza che vendeva mango, osservata da un mare di occhi curiosi che si godevano lo spettacolo di una italiana svenuta sul confine. Elías, più bianco di me, mi fa bere due bicchieri di agua de panela, freddissima, offerti molto gentilmente dalla signora accanto che si informa sul mio stato di salute e che diagnostica, autonomamente, che è sicuramente colpa del caldo.
Sì, il caldo.
Elías mi implora con il viso di andarcene: “Mancano 100 metri e siamo in Colombia”. In effetti alla mia sinistra, a un colpo d’occhio, troneggia il grande cartello di “Arrivederci” della Repubblica Bolivariana. “Per favore, non restiamo qua, è pericoloso. Se viene anche solo la polizia o se chiamano il soccorso, siamo fottuti”. Le sue parole riescono a spaventarmi abbastanza da mettermi in piedi e dopo aver pagato, ringraziato e salutato la signora della panela, ci incamminiamo. Ripercorro il ponte Bolivar in uno stato di semi-trance, trascinando le gambe e sviando lo sguardo il più possibile. Le stesse facce povere e esauste di ieri mi sembrano tutte deformate dalla luce, e poi di nuovo valigie e zaini e gruppi di persone che scompaiono furtivamente dalla metà del ponte, i tornelli, i controlli… e Mario Bros. Ci sta aspettando da un po’, sempre con lo stesso fare sbrigativo e ridanciano. Non si capisce che ha da essere contento, penso.
Ride grassamente quando Elías gli racconta che sono svenuta e che per questo abbiamo perso tempo. Non ne dobbiamo perdere più. Ci guida fino alla Dian, l’ufficio di migrazione colombiana e fa la fila praticamente al nostro posto, salutando persone con cenni della mano o della testa, ma senza mai fermarsi a parlare con nessuno. “È una fortuna che il passaporto italiano sia rosso come quello colombiano, ora tu ti metti da questa parte, nella fila colombiana, ma non parlare!”.
Come se avessi la forza di parlare!

frontalieri
Foto tratta da elpitazo.com

In 5 minuti ottengo così altri 90 giorni di permanenza in Colombia.
Adesso che finalmente aspettiamo che il papà di Elías ci venga a riprendere, mi apparto da loro due che intanto continuano a chiacchierare in piedi piazzati sul cordolo di separazione della strada. Mario Bros. senza mai smettere di parlare, quasi come se non volesse mai restare da solo con i suoi occhi, si compiace del fatto che tutto sia andato per il meglio e riferisce a Elías l’avvenimento “caliente” della giornata: “Ero un po’ in apprensione per voi, perché stamattina hanno trovato un morto ammazzato nella viuzza a lato della ‘parada’… Non si capisce molto bene, ma pare che non volesse pagare l’affitto di una di queste baracche di localini… è per questo che c’era tutta quella polizia”. Il suo tono è tranquillo e piatto, senza inflessione né emozione, anzi lo si direbbe quasi allegro, fa battute, ogni tanto mi guarda e mi prende in giro per il fatto di essere svenuta. “Non è abituata, certo”. Lui sì, evidentemente.
Per lui, tutto questo sarà normale. La più noiosa e ordinaria delle routine.
Adesso non voglio più ascoltare quello che si dicono, mi siedo sul marciapiede e provo a respirare profondamente, anche se questo vuol dire ingoiare sabbia e polvere e la sola cosa che riesco a pensare è che no, non dovrebbe essere così, nessun comunismo dovrebbe proclamarsi in nome della fame delle persone. No, non è questo quello in cui credo. Non è questo quello che voglio.
E sono delusa. Le mie idee non hanno passato l’esame della Storia.

Chavez Frontera
Foto tratta da elpitazo.com

Intorno a me dorme placidamente per terra, all’ombra di un albero in mezzo alla sporcizia, distesa su delle valigie stracolme, sorvegliata da quello che sarà il padre del bambino, una donna incinta, con un pancione enorme, di almeno sette mesi. Nessuno la copre: non ce n’è bisogno. Sarebbe ugualmente nuda, anzi, sarebbero comunque due nude vite.

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  • Calabrese, ha vissuto per 10 anni a Messina dove ha studiato filosofia, ha conseguito il títolo di dottore di ricerca, collezionato vari titoli e nipoti. Gli studi, la militanza politica, l’esperienza in Francia hanno saturato la sua voglia di Europa imponendole la necessità di prendersi un anno sabbatico per vedere il Mondo. Attualmente si trova in Sud America da 6 mesi, ma ha in progetto di rimpatriare nel nostro Sud.

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