Lacrime oltre le specie. Il bufalo di Rosa Luxemburg e il gatto di Bertolucci

Rosa Luxemburg

l primo atto di Novecento, film di Bernardo Bertolucci del 1976, si chiude con una scena singolare: il capo degli squadristi, Attila – interpretato da Donald Sutherland – per dare un esempio di virile contegno contro ogni sentimento di tenerezza e pietà, uccide brutalmente un gattino bianco e nero. La violenza irragionevole e cieca della sequenza è talmente ben riuscita che, come ammetterà successivamente lo stesso regista, diverse associazioni animaliste si lamentarono costringendo la produzione a dichiarare che nessun gatto in carne ed ossa era stato utilizzato, bensì un fantoccio. Sembrerebbe quasi che l’episodio del gatto avesse fatto più impressione e fosse penetrato più a fondo nelle coscienze degli spettatori della scena precedente in cui, su dei poveri carri, vengono trascinati i corpi bruciacchiati di quattro contadini uccisi in un attentato fascista. In effetti, nella deliberata violenza architettata ai danni di un gatto per fini studiatamente pedagogici persiste qualcosa di enigmatico. Più che una scena perturbante, l’episodio risulta a tutti gli effetti disturbante, in un modo che non ha esclusivamente a che fare con la legittima sensibilità degli amanti degli animali. Sembra affacciarsi in controluce, opposta alla morbida fiducia dell’animale che si lascia afferrare ingenuamente, una violenza fredda ed antica, causa di un gemito millenario che affianca le sofferenze imposte dall’uomo all’uomo, ma che, forse, le accompagna e in qualche modo le presuppone. Nella scena si mostra come, per esplicita intenzione del personaggio stesso, la pedagogia fascista abbia tra i principi fondamentali quello della sopraffazione dell’indifeso, dell’aggressione contro la fragilità e dell’annientamento della bellezza. La crudeltà contro un animale viene utilizzata deliberatamente come monito ed esempio di ciò che un buon fascista non deve provare: la compassione verso i più deboli, la tenerezza verso la grazia, il rispetto spontaneo per ogni vita. In questo senso la scena va oltre lo stesso periodo storico descritto, per abbracciare le tematiche dell’autoritarismo e della violenza in senso lato.  Di fronte al divincolarsi di quel piccolo corpo che ha capito troppo tardi le intenzioni sadiche e assassine dell’uomo, assistiamo al grido terribile, benché muto, dell’ingiustizia e della sopraffazione: il minimo comune denominatore di un mondo che non conosce pietà. Abbiamo così, legato alla tavola di legno sulla quale verrà schiacciato, un gatto come un Cristo in Croce.

È qui ricostruita una scena archetipa come quella della cavallina di Dostoevskij, dove l’animale soccombe sotto i colpi di una violenza tanto brutale quanto quotidiana, abituale, o per lo meno giudicata tale. È noto come la cavallina fosse il simbolo di tutti i soggetti vilipesi e vessati dalla prepotenza del potere, che si colloca sempre dalla parte dei più forti, tanto che molti hanno visto nel gesto dello stesso Nietzsche, di abbracciare un cavallo per le vie di Torino, non tanto l’azione che denuncia l’insorgere della pazzia, quanto un capitolare sotto il peso di un’infinita compassione e pietà, non solo per gli uomini, ma per la vita tutta. La guerra alla pietà teorizzata da Derrida (ne L’animale che dunque sono, 2006), ha come prima manifestazione la violenza e i maltrattamenti sugli animali, che sono sempre il sintomo di un’aggressività culturale e istituzionalizzata che andrà inevitabilmente a ritorcersi – e sfogarsi – contro gli stessi esseri umani, soprattutto contro quelli che appartengono alle categorie degli inermi o che sono resi tali da politiche autoritarie  e ostili: i bambini, i malati, le donne, gli anziani, le minoranze tutte.

L’empatia e la sofferenza che scavalca le differenze di specie per farsi denuncia del dolore universale, è magistralmente descritta anche in una lettera del 1917 di Rosa Luxemburg. Mentre è in carcere, la Luxemburg assiste a dei maltrattamenti contro un bufalo e ne rimane profondamente turbata. Nella lettera in cui descrive l’episodio appare chiaramente come gli animali, fino a poco tempo prima liberi, siano stati requisiti dall’esercito come vero e proprio “bottino di guerra” ed obbligati al giogo per il trasporto di vettovaglie e armi, al posto dei cavalli, soprattutto per la loro straordinaria struttura fisica, molto resistente e robusta.

Andiamo all’episodio descritto: c’è un carro di vettovaglie che non riesce a superare la soglia d’ingresso del cortile di una prigione. Il carico è troppo pesante e gli animali, una coppia di bufali, sfiniti, non riescono a procedere oltre. Questo scatena l’ira del soldato che guida il carro. Egli comincia a percuotere le bestie in modo tanto brutale da suscitare l’indignazione persino della guardia in servizio nel carcere. “La guardiana della prigione gli chiese se non avesse pietà delle bestie. E di noialtri, chi ha dunque pietà? Rispose con un sorriso cattivo sulle labbra, ricominciando a colpire con forza…”, scrive Luxemburg, sottolineando così un altro aspetto interessante della violenza contro i più deboli: la vendetta e la rivalsa di chi, allevato nello stesso orizzonte, ne ripropone gli schemi alla prima occasione, godendo di essere per una volta dalla parte dell’aguzzino.

Parlare dei più deboli in senso lato non è qui una generalizzazione eccessiva o pretenziosa. Il meccanismo che spinge a sfogare le pulsioni di aggressività e dominio su chi non ha il potere di reagire, come ad esempio gli animali domestici, più di un riflesso psicologico rispecchia uno schema di potere machista che è facilmente riprodotto anche con gli individui inermi, primi tra tutti i bambini. In Viaggio al termine della notte(1932) lo scrittore francese Céline, ad esempio, nel descrivere la violenza endemica di cui la vita quotidiana degli uomini è pregna, sottolinea come delle insoddisfazioni e dei malumori generati dai tempi morti dei fine settimana facessero le spese, in egual misura, “cani, gatti, bambini”.

E proprio a un bambino Rosa Luxemburg paragona il bufalo percosso. Con un ultimo sforzo, alla fine i due animali sono riusciti a trascinare il carro nel centro del cortile dove le prigioniere cominciano ad affaccendarsi per scaricarlo. Rosa Luxemburg rimane ferma di fronte agli animali, ma uno di loro perde copiosamente sangue da una profonda ferita: “Uno dei due bufali, quello che sanguinava, guardava dritto davanti a sé e, sul muso scuro dagli occhi neri e dolci, aveva un’aria da bimbo in lacrime. Era esattamente l’espressione di un bambino che viene punito duramente e non sa per quale motivo né perché, che non sa come scappare dalla sofferenza e dalla forza bruta…”. Quella sofferenza così nuda e palpabile, quell’ingiustizia intollerabile, commossero la Luxemburg, che non aveva mai visto un bufalo in vita sua sino a quel momento, sino alle lacrime. “Davanti al dolore di un fratello caro è impossibile non essere scossi dai più dolorosi singhiozzi come lo ero io nella mia impotenza davanti a questa muta sofferenza (…) Oh mio povero bufalo, povero amato fratello, siamo qui entrambi così impotenti, così inebetiti e il dolore, l’impotenza, la nostalgia fanno di noi un solo essere”.

Un unico essere, malgrado e al di là delle diversità di specie, la Luxemburg sembra in questi brani parlare di un’internazionale ancora più antica e ancestrale di quella che lega le classi sfruttate: quella degli oppressi di ogni forma. Il grande insegnamento che ci consegna questo brano è, infatti, che non ci sono gerarchie nel dolore né differenze qualitative e concettuali della violenza e della sopraffazione. La brutalità insita nel sistema attuale di potere non cambia a seconda delle vittime verso le quali si applica. Per sottolineare questo concetto Rosa Luxemburg torna alla figura del soldato che nel frattempo passeggia avanti e indietro nel cortile “con le mani ficcate nelle tasche dei pantaloni, un sorriso sulle labbra, fischiando un ritornello popolare. E davanti ai miei occhi vidi passare la guerra allo stato puro”. La guerra allo stato puro è la prevaricazione del più forte. È la sofferenza antica e perenne inferta agli inermi. È il fascismo descritto da Bertolucci che insegna a disprezzare e mortificare la vita. E davanti questa guerra che insanguina la storia e trasforma il mondo in una conca di disperazione, tutti gli esseri sono ugualmente esposti e sacrificati. Per chiedere perdono di tutto ciò Nietzsche abbraccia un cavallo per strada. Per questo Rosa Luxemburg, prigioniera politica privata di diritti e libertà, accoglie e si lascia travolgere dalla sofferenza di un bufalo. “Ero davanti a lui, l’animale mi guardava, le lacrime colavano dai miei occhi, erano le sue lacrime…”.

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  • Nata a Messina, ma con contaminazioni calabresi da parte di padre e Arbreshe da parte di nonna; ama vivere sospesa tra le due sponde dello Stretto, mescolando l’intima e continua confidenza con il mare, con le memorie d’infanzia legate alle campagne tra Crotone e Catanzaro. Si occupa di antropologia filosofica e fenomenologia tedesca, con un focus ossessivo sul corpo e l’intreccio tra biologico, esistenza e pensiero che esprime. Si allena ad osservare il mondo tramite il giornalismo, la pittura ed escursioni in vari continenti.

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