La società maniacale

Il XX secolo è stato l’ultimo secolo del padre. La fine del padre ci ha consegnato le macerie della società disciplinare, un collasso dei limiti e dei divieti che ha strutturato una nuova società liquida del controllo. Questa nuova società del controllo è una società maniacale, il cui baricentro risiede nell’efficienza. L’individuo di questa società è l’individuo della prestazione, un individuo senza limiti che può (e deve) finalmente essere sé stesso. Nella società dell’efficienza non soltanto devi diventare ciò che vuoi, lontano dai limiti imposti dal padre, ma devi necessariamente essere responsabile della costruzione del tuo futuro: è una libertà dal padre e, allo stesso tempo, una schiavitù del sé. Quando l’individuo, senza vincoli, senza ostacoli, senza divieti, non è in grado di costruire la propria esistenza, non può che imputare la colpa a sé stesso.

La generazione di cui faccio parte si è trovata nel passaggio che dalla morte del padre ha portato alla società maniacale, nella faglia di un mutamento radicale che si è trasformato, per i nati negli anni ottanta, in una scissione irrisolvibile. Cresciuti sotto l’egida di un padre morente, siamo entrati nel mondo del lavoro agli inizi della società dell’efficienza che si è annunciata con la rivoluzione digitale ed è andata avanti con le continue richieste del Capitale che dalle prime leggi sulla flessibilità del lavoro, si sono spinte fino alla brutalità del mondo del lavoro successivo alla crisi finanziaria del 2008. Abbiamo risposto alle richieste del padre – sia reale che simbolico – un padre che ha vissuto la corrispondenza del binomio lavoro-istruzione: «studia perché una buona istruzione ti permetterà di migliorare la tua condizione culturale e questa ti garantirà un buon lavoro, un lavoro migliore del mio», ma siamo stati soprattutto vittime di quelle richieste: i figli ci hanno creduto, ma quasi come fosse una speranza e non un dato di fatto. A un certo punto, sia i figli che i padri hanno visto frantumarsi le promesse della società del padre, collassate sotto i colpi delle forze centrifughe che hanno precarizzato prima la vita lavorativa, poi, come tessere di un domino, la vita relazionale e sociale, finendo per colpire anche il Sé dell’individuo.

Malattie come depressione e ansia denunciano proprio questo repentino passaggio dalla società del padre alla società dell’efficienza, dalla società della Legge alla società maniacale. La società del padre era la società del reietto, del folle, del ribelle, una società disciplinare che produceva isteria e violenza. La società maniacale è la società della depressione (perché, rimossi tutti gli ostacoli e depotenziata la Legge, se non “riesci” nella vita la colpa è soltanto tua) e, forse ancora di più, dell’ansia: la prestazione deve essere sempre la migliore possibile, l’efficienza deve riguardare ogni aspetto della vita, l’individuo deve essere sempre pronto, sempre attento, sempre preparato. Tutto deve essere performante, tutto valutato, tutto maniacale. Proprio per questo tutto quanto diventa un coefficiente d’ansia, dal collega di lavoro al compagno di classe, dal partner al collega di università. La società maniacale ha creato questi disagi, non ne ha soltanto sperimentato la crescita. Ansia e depressione oggi non sono soltanto un fatto psichiatrico; sono un fatto sociale e come fenomeno sociale andrebbero indagati. Bisognerebbe chiedersi, come per il suicidio nella società industriale descritta da Émile Durkheim, se è questo tipo di società tardo-capitalistica e atomizzante a produrre il disagio mentale che stiamo sperimentando oggi. È una delle tesi, forse la più importante, che sta tra le righe di Realismo capitalista di Mark Fisher e che attraversa anche le pagine di La società della stanchezza di Han.

La società dell’efficienza è una società maniacale alla cui iperattività del lavoro, che rappresenta la fase “positiva”, la vera e propria mania, fa da contraltare la fase depressiva, la negatività che ne è la metà oscura. Han rileva anche l’iperattività come modello disfunzionale nella società che lui chiama società della prestazione[1]. In effetti, la società maniacale impone una concentrazione breve ed estremizzata, in pochi istanti si richiede uno sforzo di concentrazione radicale, salvo poi perdere tutto quanto in un perenne sovraccarico cognitivo. L’attenzione di qualità, quella protratta nel tempo, ma divergente e non ossessiva, semplicemente non è contemplata, forse perché questa implica una attenzione aperta alla creatività culturale.

La società maniacale è anticulturale, nel senso che sopprime la possibilità stessa di una controproduzione culturale. La cultura, nell’epoca dell’efficienza, è puro intrattenimento ed è rappresentata al meglio dalle serie tv. Se, nell’epoca del padre, l’intrattenimento episodico (vedi la pubblicazione a puntate dei grandi romanzi ottocenteschi di Charles Dickens) veicolava dei valori, delle idee, delle battaglie che la società disciplinare non riusciva a silenziare o che lasciava fuoriuscire dalle maglie del controllo; oggi l’intrattenimento è funzione dell’ideologia dominante. È, da un lato, mero intrattenimento da replicare all’infinito che permette al lavoratore di chiudersi ancora di più all’altro da sé, evitando ancora più ossessivamente una reale relazione con gli altri e gli spazi condivisi e di incontro, dall’altro lato è un intrattenimento che permette non più una riflessione “contro” ma una familiarizzazione con l’ideologia dominante che viene accettata ancora di più tanto più si critica da sé. La serie tv Black mirror, che denuncia gli effetti nefasti dello sviluppo tecnologico, è, da questo punto di vista, paradigmatica in quanto annichilisce ogni possibilità di una vera critica, stempera ogni reale pericolosità: se può essere criticata in una serie tv, la tecnologia non può davvero essere pericolosa. È un po’ come la nuova figura dei comici nelle trasmissioni che si occupano di politica: se ne posso fare l’imitazione e prenderlo in giro, quel politico non può essere così pericoloso. Da questo punto di vista, intrattenimento e satira altro non sono che esempi di familiarizzazione con l’ideologia dominante che finisce per essere sottovalutata e quindi accettata. È il capolavoro dell’ideologia, ed è la seconda costante che è presente sia nella società del padre che nella società maniacale.

La prima costante, la più importante e la più crudele, è la costante del Capitale.

In termini lacaniani, si potrebbe dire che le società hanno una diversa struttura simbolica, il Grande Altro, ma che tale struttura simbolica non è ciò che conta. Il Grande Altro si potrebbe definire come ciò che tutti sanno non essere vero ma in cui continuano a credere, o meglio, ciò in cui si crede nonostante si sappia che non è la verità e che, proprio grazie a questo non detto, diventa la struttura che fa funzionare una società: «è la finzione collettiva e assieme la struttura simbolica presupposta da ogni campo sociale»[2]. Ciò che conta non è il Grande Altro, persino l’ordine simbolico serve soltanto a far funzionare una società. Nel passaggio tra società del padre e società maniacale c’è stato un mutamento dell’ordine simbolico, ciò che non è cambiato è stato il motore che ha modificato l’ordine simbolico e questo motore, questa cornice dentro cui si può giocare il gioco del Grande Altro è il Capitale.

La vera tragedia, nel passaggio da un’epoca all’altra, da una società all’altra, è scoprire che l’ordine simbolico è un simulacro, una finzione funzionale che è essa stessa una finzione.

È il Capitale che decide l’ordine simbolico.

Che fare?

 

[1]Cfr. B. Han, La società della stanchezza [2010], Nottetempo, Milano 2012.

[2] M. Fisher, Realismo capitalista[2009], Nero, Roma 2018, p. 95.

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  • Carmelo Rosace è nato e vive a Reggio Calabria, dove lavora come insegnante. Ha studiato filosofia all’Università degli Studi di Messina dove nel 2016 ha conseguito il dottorato di ricerca in Metodologie della filosofia.

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