Il desiderio è politico. Deleuze lo aveva intravisto nella convergenza tra la sociologia di Gabriel Tarde e il pensiero di Michel Foucault: i rapporti di forza (non di violenza, si badi bene) cui va ricondotto il potere sono propagazione e circolazione di credenze e desideri. Esiste infatti un punto di convergenza tra il registro della pulsione e quello della sfera sociale, tra psicoanalisi e politica.
Cosa desidera, ad esempio, il neonato governo giallo-verde? Esso si inserisce in una dialettica che oppone come potere e contro-potere due narrazioni incompatibili. Resta dunque tutto all’interno di una logica della rappresentazione, non propone alcuno scarto rispetto al quadro esistente che non sia la mera proposizione dell’altra faccia della medaglia.
Chi non si riconosce in nessuna delle due facce reclama oggi una logica differente, invoca il sillogismo disgiuntivo: né questo, né quello, ma questo, quello e ancora dell’altro inimmaginabile. Bisogna preparare il campo per una politica altra. Per chi è dannatamente inattuale, sarà necessario impegnarsi in un faticoso sforzo concettuale per esplorare il campo virtuale, reale senza essere attuale, delle alternative qui e ora impossibili. Senza cedere allo sconforto o alla rassegnazione, ma adottando un “ottimismo disperato”. È il tempo di essere pienamente affermativi: non basta dire “no”, opporre un pur nobile fronte repubblicano alla deriva populista. Le buone intenzioni, si sa, sono necessariamente punite. Si dica piuttosto “no” nel senso di Bartleby lo scrivano, recitando, con Deleuze e Agamben, la “formula della creazione”.
Se il desiderio viene preso responsabilmente nella sua accezione affermativa, quale sarà la ricaduta in ambito politico e sociale? Deleuze è stato accusato da più parti di aver fornito un’ontologia al turbocapitalismo, proprio attraverso la logica affermativa della produzione desiderante. Ma esiste una versione creativa e letteraria (“perversa”) del desiderio che può mescolarsi con le forme post-moderne della produzione macchinica senza rimanere invischiata nella palude del godimento obbligatorio, imposto surrettiziamente dalla società dei consumi. È la versione di Alice e dello Zen, di Bartleby e di Fitzgerald.
La letteratura e la filosofia oggi più che mai devono tenere aperto il campo virtuale delle impossibilità, evocando l’inattuale. Massimo Recalcati sulle colonne de la Repubblica riprendeva qualche giorno fa, a proposito del nuovo governo Lega-M5S, la figura di Telemaco, argine all’usurpazione dei Proci.
Probabilmente ciò che ci manca in questi tempi difficili, per dirla nei termini di Differenza e ripetizione, è il “pretendente spurio”, il candidato che spariglia il campo, l’aedo di una nuova narrazione nel campo universale della sinistra. L’argine del no che dice sì a una politica altra, la liberazione del desiderio senza l’umiliazione della Legge.
Per rifarci a un mito pop, ci manca Jon Snow, il pretendente illegittimo che sappia farsi “poeta rivoluzionario” e sbaragliare la prosaicità dei nuovi fascismi, intimando ai Proci l’extra omnes.
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