Quando attivisti e qualche ricercatore o giornalista hanno iniziato a utilizzare la parola “lager” per definire i centri riservati ai migranti irregolari, non sono mancate le polemiche da parte di chi, purista della memoria, rilevava l’irripetibilità degli eventi dell’Olocausto e quindi l’impossibilità di riutilizzarne il lessico in una situazione attuale giudicata, spesso anche correttamente, differente. Secondo queste critiche sarebbe stato storicamente scorretto, e in più irrispettoso, utilizzare il termine lager per connotare i centri di reclusione o di semidetenzione per migranti clandestini.
Poi sono arrivati i campi in Libia – benedetti in seguito all’accordo ufficiale battezzato dal Ministro degli Interni italiano Marco Minniti –, le aree enormi nel deserto delimitate dal filo spinato, le stanze come gabbie stipate di centinaia di persone deportate, seviziate, ridotte in schiavitù, torturate, sistematicamente stuprate e uccise come bestie. Un ritornello macabro al margine della pagina di cronaca di quotidiani e Tg, perennemente rinvigorito da decine e decine di denunce, dalle testimonianze degli stessi migranti sopravvissuti “all’inferno libico”, dai dati sconcertanti raccolti da diverse ONG e dalle inchieste, spesso anche video, di alcuni freelance.
Le foto delle torture dei campi libici hanno per mesi ossessionato i profili social della gente più sensibile al tema dei diritti – o alla sofferenza altrui in generale. I report degli abusi sistematici sulle donne detenute nei centri si susseguono angoscianti, e quando è arrivato l’accordo tra Libia e Italia che questi orrori non ha fermato, ma anzi moltiplicato e in qualche modo legittimato, anche l’ONU non ha potuto tacere, definendolo “disumano”. Sull’onda di “testimonianze dell’intestimoniabile” e di dati e documenti sempre più atroci, il termine “lager” non solo riaffiora, ma dilaga, nel sentire comune e di riflesso sui titoli dei principali quotidiani nazionali. 12 agosto 2017. IlFattoQuotidiano.it: Libia, l’inferno nei centri-lager dove sono rinchiusi i migranti. Le immagini del reportage di Francesca Manocchi, di Gisella Ruccia. 2 ottobre 2017. Repubblica.it: Rotte migratorie e torture nei lager libici, le testimonianze dei migranti, denuncia MEDU. 8 settembre 2017. L’Espresso: La costa dei lager: i centri di detenzione dei migranti in Libia dove neanche l’Onu entra, di Francesca Manocchi. 21 novembre 2017. Avvenire.it: Migranti, orrori nei lager, la Libia ora indaga, di Daniela Fassini. Solo per fare alcuni esempi temporalmente coesi.
Di fronte all’orrore esplicito e rivelato, nessuno ha obiettato sull’uso del termine per definire i centri libici. Almeno non a nostra memoria. Resta però aperta la questione degli altri centri. Quelli sorti nella nostra penisola, ad esempio, trasformati da una velina della commissione europea in hotspot, definizione fluttuante e giuridicamente inesistente che rende ancora più nebuloso lo statuto dei centri stessi, già di per sé emergenziale ed extra-giuridico. In questo caso, ritornano le obiezioni. Ovviamente, i lager della Seconda Guerra Mondiale non sono quelli in Libia e quelli libici non sono i nostri centri per migranti irregolari. Una connessione, però, a nostro avviso sussiste. Anzi, di più: potremmo spingerci a ipotizzare che sia proprio la somiglianza ai lager “classici” dei centri nostrani ad aver suggerito, fomentato e permesso – se non altro nell’accettazione e nell’assuefazione dell’opinione pubblica – gli attuali in Libia, sanciti e benedetti dall’accordo che ha portato alla drastica diminuzione degli sbarchi, per la gioia di tutti.
Per spiegare meglio la nostra tesi, ci affidiamo alle parole quanto mai chiare ed illuminanti della Professoressa Federica Sossi, che nel lontano 2002 usa il termine incriminato sin dal titolo del suo libro “Autobiografie negate. Immigrati nei lager del presente” edito da manifestolibri:
«Il termine Lager impiegato nel titolo del volume per definire i centri di permanenza temporanea, è una parola forte. Avvertiamo subito la non corrispondenza: anche in questi anni di perdita o cancellazione della memoria, le connotazioni storiche del termine rimangono vive, continuano a fissare un limite estremo e intollerabile dell’oltraggio perpetrato dagli uomini ad altri uomini. Ma in realtà Lager vuol dire campo, e “campi” lo erano tutti, quelli di lavoro e quelli di sterminio, quelli da cui si uscì vivi e quelli da cui non si uscì neppure da morti. Forse il tenere vivi tutti gli echi che le parole portano in sé può essere fatto valere come un avvertimento: stiamo attenti a cogliere nell’internamento degli indesiderabili la manifestazione – quantitativamente piccola, qualitativamente significativa – di un atteggiamento mentale e politico in cui sono già impliciti il disprezzo, l’intolleranza, la sospensione dei diritti, il doppio binario. In altre parole, attenti ad avvertire nella provocazione della parola forte e semplificante non tanto l’insulto alla propria sensibilità, quanto il richiamo a notare la comparsa nella nostra società e nella nostra cultura di elementi nuovi e, come minimo, pericolosi».
“Nuovi elementi” ormai divenuti vecchi e consolidati, che confluiscono e insieme rendono possibile, il dilagare di quella che anche Alessandro Dal Lago definisce la “forma-campo” nelle nostre democrazie, anche là dove di campi fisicamente non ne sussiste alcuno, ma vige l’atteggiamento di intolleranza verso il diverso e la sua sistematica rimozione. Come ha già fatto notare Franz Fanon, del resto, la violenza e il disprezzo verso l’altro implicite nel razzismo non possono essere misurate per gradi, percentuali e proporzioni. Ciò che conta è l’atteggiamento di fondo che implica sempre la minaccia, anche solo in potenza, di un insulto verbale come di un’aggressione; della negazione dei diritti come della stessa vita.
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