La libertà contro tutti i vangeli diversi

Tocqueville

Nel Quaderno di luglio della rivista Civiltà Cattolica è stato pubblicato un interessante articolo scritto a quattro mani da padre Antonio Spadaro, direttore della rivista dei gesuiti, e dal pastore presbiteriano Marcelo Figueroa, direttore dell’edizione argentina dell’Osservatore Romano.
Obiettivo polemico degli autori è la c.d. Teologia della Prosperità.
Una teologia formatasi all’interno dei movimenti evangelici neo-pentecostali americani e diffusasi poi in tutto il mondo che si fonda su un indomito ottimismo.
Ottimismo che giunge, attraverso la cognizione di appartenenza ad una stirpe predestinata, alla certezza di una vita materialmente prospera. La teologia dei felici e dei ricchi, quindi.
L’ingenuità dell’approccio è evidente, e evidente è anche il successo di un semplicismo che nega complessità e trascendenza, ma gli autori del pezzo vanno oltre, non si limitano a contestare teologicamente tale deriva e legano in qualche modo tale degenerazione del pensiero evangelico al sogno americano, alle specificità dell’american way of life.
L’obiettivo politico è quello di colpire il c.d. neo-liberismo attraverso la stigmatizzazione di un orientamento teologico che “giustifica” un dato sistema di potere.
In realtà, Spadaro e Figueroa sono consci dell’azzardo di una piena identificazione tra il vangelo della prosperità, l’austerità dei padri pionieri e il sogno dei tanti immigrati in America per libertà e lavoro.
Ed in effetti escludono tale compiuta convergenza limitandosi a rappresentare solo una derivazione, ma gli argomenti usati palesano un obiettivo politico – l’amministrazione Trump – senza però colpire davvero il bersaglio e con il rischio di un’impropria generalizzazione.
Lo stesso approccio fu usato anche in articolo simile pubblicato l’anno scorso dagli stessi autori e anch’esso recensito su Strade.
La commistione di sacro e di profano è propria di tutti gli approcci teologici e le Chiese, pur non essendo di questo mondo, ci stanno e vi operano. Ogni approccio purista che bolla come eretico il legame tra fede e storia non svolge un buon servizio all’autenticità del messaggio cristiano e dissimula, appunto, le ricadute politiche della propria rivendicata ortodossia.
In realtà l’american dream non è mai stato predilezione che scaturisce dal culto di un dio-talismano, di un dio “obbligato” a realizzare le promesse bibliche, vincolato alla Lettera e privo di Spirito.
È stato, invece, per molti in fuga da persecuzione (anche religiosa), il sogno di un lavoro libero e riconosciuto che genera ricchezza in un contesto di apertura, meritocrazia e laicità.
Tutto questo è contro il Vangelo?
Gli autori di Civiltà Cattolica si dimostrano convinti di aver trovato il nesso tra l’escatologia immanentista di chi si riunisce in mega-chiese per ottenere salute e denaro e l’individualismo americano.
Il nesso sarebbe il liberismo, il mercato, quali fonti di materialismo, povertà di spirito ed indifferenza sociale.
Ma la libertà è molto più che questo: più che materializzazione dei doni di questo o quel dio è sogno, speranza ed elettricità, e proprio questo manca nell’articolo dei padri gesuiti: si possono citare e interpretare audacemente le tesi di Smith o di Tocqueville e la loro influenza in America, ma non si può tacere – parlando di teologia americana – della poesia di Walt Whitman.
La libertà è possibilità, rischio di insuccesso e ripartenza, e mai necessità e destino legate ad un culto escludente e riduzionista che porta automatico benessere.
Non è il potere della fede cieca a generare, ancora oggi, l’american way of life, ma il potere dell’associazione e della libera ed autonoma Grande Società che si impone sulla burocrazia della pianificazione statale.
Alexis de Tocqueville non è un romantico e banale cultore dell’eccezionalismo americano, perché ciò che è eccezionale ne La democrazia in America è il moto sociale spontaneo di un diritto non imposto d’autorità, di una Patria continuamente rigenerata dagli apporti esterni che fanno la storia.
Gli autori giustamente temono un “vangelo diverso”: pensiero positivo ed ingenuo, salute reclamata come promessa, fede che diviene assicurazione contro i mali della vita, precetti come portafortuna, sono oggettivamente altro rispetto al cristianesimo dell’escatologia fondata sulla vera pace in Cristo.
È un incubo gnostico quello di un paradiso terrestre fatto di esaltati pronti a condannare povertà e debolezza come destino per gli increduli, e i gesuiti fanno bene a sottolinearlo… ma in tutto ciò c’entrano davvero Adam Smith e la libertà economica?
Gli autori additano alcune follie neo-pentecostali per pungolare il sistema liberale, forse per demolire Trump, senz’altro per contribuire a propagandare un neo-collettivismo solidaristico che si faccia alternativo al culto dell’individuo. Ed anch’essi non sfuggono alla tentazione di individuare una fonte teologica giustificativa.
È il Sud America cattolico, la teologia pauperista, alcune prese di posizione di Papa Francesco che si prestano a questo scopo.
È l’esaltazione della povertà come valore ad essere strumentale alla messa in discussione del liberismo; una sorta di colta e raffinata demagogia che, però, una volta censurato il mercato, l’autonomia del Singolo, l’orgoglio individuale per la crescita e il riscatto – al di là delle buone intenzioni (di cui, si sa, è lastricato ogni inferno in terra) – sempre lì porta: alla valorizzazione del sussidio di stato più che del lavoro, alla rassegnata visione di una cittadinanza ridotta a ricettacolo degli interventi del Leviatano paternalista.
È dunque il vangelo socialista – quello contro cui ha lottato per una vita il cattolico e liberale Wilhelm Röpke – che deve opporsi a quello della prosperità? E ciò è giusto?
È giusto arrendersi alla contemporanea ideologia collettivista e tremebonda che – nella paura del futuro – mutila il progresso e lo sviluppo e nega i diritti naturali, l’autonomia dei corpi intermedi?
Ad essere miracolistica non è solo l’assurda fede nella prosperità della stirpe regale ma anche un certo solidarismo sganciato dall’impegno per il miglioramento delle condizioni date.
È l’inamovibilità dell’ascensore sociale – propria dei sistemi illiberali e nemici del mercato – che ghettizza i poveri come bravi ed innocui dannati, come “protetti”, bisognosi non di contratto e lavoro (penso, ad esempio, ai lavoratori africani privi di canali legali e ordinati di immigrazione in Italia) e spogliati di ogni diritto civile (l’unico davvero tale) per divenire scarto e materiale umano buono per la retorica dell’umanitarismo, buono per una teologia della sconfitta predestinata.
Il cristianesimo è in sé alternativo ad ogni vangelo diverso, sia esso della prosperità o della disperazione, perché l’escatologia del Regno ultimo funziona da contraltare scettico e desacralizza ogni velleitaria costruzione politica umana.
Ed è vero che i poveri ci saranno fino alla fine dei tempi (Marco 14:7) come è vero che la persona – in un mondo libero da ideologie escludenti e utopie scientifiche – ha il diritto di lavorare per il proprio riscatto, di lottare per la crescita della propria famiglia e per ottenere libertà eguali per tutti.
Il problema, quindi, non è il sogno americano, né l’eccezione americana negli occhi di Tocqueville abituato alla normalissima, e davvero non eccezionale, ingiustizia e miseria europea del suo tempo.
Non è davvero preoccupante il rischio della libertà d’azione e di scelta aperta sul baratro del successo e dell’insuccesso (che va opportunamente ammortizzato dall’intervento pubblico).
Il pericolo – nel tempo oscuro del semplicismo becero che non è, purtroppo, appannaggio solo di Trump – è quello di sbagliare completamente il bersaglio polemico, di contribuire involontariamente a sbaragliare gli argini culturali, storici, giuridici ed economici che difendono la democrazia liberale e lo stato di diritto (contro le democrature illiberali di Putin, di Orban o di Maduro, ad esempio) rinforzando teologicamente un populismo di maniera che, in fondo, ha sempre la solita ricetta: depotenziare l’individuo per l’Istituzione, barattare la libertà per la sicurezza di Stato.
Per fortuna, “non di solo pane vive l’uomo” (Matteo 4:4).

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  • Giurista e dottore di ricerca in Metodologie della Filosofia sta in equilibrio tra attività di vigilanza in materia di lavoro e la ricerca nell’ambito della teologia-politica. Di Reggio, vive a Villa San Giovanni dopo aver girovagato soddisfatto tra Parma e Venezia.

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