La dittatura siamo noi!

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La zappa sui piedi ce la siamo già data

Ma quale ritorno alla dittatura. State tranquilli, la zappa sui piedi ce la siamo data da tempo. Nel nome del libero benessere e del consumismo fai-da-te abbiamo svenduto da tempo i nostri diritti e poco ci importa dei doveri. Pasolini lo diceva già negli anni sessanta, il nuovo Fascismo è il consumismo.

Legittimo aspirare a condizioni di vita migliori; pura follia, invece, affidare la propria felicità al superfluo. E ora, cosa rimane?

La dittatura degli slogan

La balbettante politica contemporanea senza punti fermi si vanta della caduta delle Chiese ideologiche ed esalta il civismo spettacolarizzante nel quale tutti sono comandanti e comandati. In una società basta su opinioni ad effetto e incapace di interpretare un testo, Salvini è un aforista alla stregua dei grandi moralisti europei. Lui è l’unico politico che ha compreso che tre parole messe insieme con enfasi riescono ad addomesticare la massa. Per un breve periodo c’è riuscito anche Renzi, ma il capolavoro di Salvini è stato quello di aver fatto dimenticare ai meridionali che, per i leghisti, fino a poco tempo fa il problema era il Sud. Lo slogan, ossia, l’abbacinante luogo comune, è uno strumento comunicativo ad alto impatto in una società dalla memoria corta, amante della commedia e che volutamente ignora tutti gli altri punti di vista.

Ma il merito di questa decadenza viene sempre da lontano, ovvero, da decenni fa, quando si è innescato il processo di impoverimento del linguaggio. A ogni parola corrisponde un concetto; meno parole conosciamo, meno concetti riusciamo a esprimere e a elaborare. In questo modo tutto diventa piatto e monodimensionale.

La dittatura del superfluo

Il benessere ha generato accumulazione, l’accumulazione ha generato avidità, l’avidità ha creato un nuovo concetto di povertà. Oggi è povero chi non ha il superfluo. Esistono sacche di povertà assoluta, nessuno lo mette in dubbio, ma anche la povertà assoluta è calcolata in base al superfluo e non sempre tenendo conto del reale fabbisogno. Pertanto, può esistere pace, benessere e fraternità tra tutti i popoli? No, questa è una gran cazzata. Chi oggi inneggia a questi valori è solo un romantico. Il motivo è semplice: quanti sono pronti a rinunciare al superfluo e a vivere del giusto? Pochissimi. La divisione del mondo in zone poverissime e zone ricchissime è necessaria al mantenimento dello stile di vita che ben conosciamo. Se più di sette miliardi di persone vivessero nel superfluo, in pochi anni il Mondo esploderebbe. Le risorse sono limitate.

L’uomo postmoderno

Intanto, il superfluo ha generato un uomo che lotta per sopravvivere, che necessita del riconoscimento pubblico per stare in pace con se stesso, che s’impegna per accaparrarsi potere e consenso, che consuma droga e alcool per provare emozioni proibite, che accumula stress, che interagisce sempre più con i social solo per mascherare la propria impotenza sociale, che svende il proprio corpo per sentirsi parte del gran bordello virtuale, che usa la violenza come atto di virilità, che non ha più tempo perché non ne ha percezione.

Anche l’arte è ridotta a consumo

L’arte o la letteratura salvano? No. Altra gran cazzata. La cultura non è più parte del mondo delle idee, del metafisico e dello spirituale. L’arte è consumo. I libri sono prodotti. Se ne producono più di quanti se ne vendono. La sovrapproduzione è necessaria al sistema editoriale. Si legge più in una tribù dell’Africa nera che non in Italia. Inoltre, oggi, l’arte è legata al quotidiano; cerca di raccontare ciò che siamo, manca del potere di creare nuovi linguaggi che stimolino altri concetti per uscire dalla crisi. La precarietà culturale va di pari passo con quella materiale. Plasmare un uomo senza certezze, manipolabile, flessibile, ammaliato da ciò che potrebbe avere, fomentato da desideri al silicone, serve per alimentare la voglia di sfida che oggi rende ognuno di noi un perenne adolescente. La frustrazione della precarietà e l’inaccessibilità al superfluo generano schiavitù.
La dittatura si è compiuta da tempo.

Martino Ciano

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