La depressione: quando non uccide (solo) l’anima

Sembra assurdo, quando ci si interroga sulla causa della morte di un ragazzo di soli ventott’anni, che la risposta possa essere “depressione”, per due motivi: il primo è che si tende a credere che la depressione sia qualcosa di meno grave – o comunque non mortale – rispetto alle malattie fisiche (un cancro, un infarto, un aneurisma…); il secondo, che ancor meno ci si immagina che di depressione si possa morire, in ospedale.

Una storia – quella di Paolo – che ci spinge a riflettere sulla gravità di una psicopatologia spesso incompresa, di una sofferenza atroce che spinge un uomo di soli ventott’anni a pensare che la morte possa essere l’unica via di uscita da un dolore che non solo non si attenua, ma che stenta, anche, ad essere compreso nella sua profondità. Una storia di depressione e disperazione che ci invita a riflettere su quanto ancor’oggi si sia spesso impreparati nella gestione del paziente psichiatrico (o, più propriamente, con un disturbo dell’umore) e sul fatto che, ingenuamente, si stimi una patologia del genere come guaribile soprattutto grazie alla forza di volontà.

Quando parliamo di disturbi dell’umore ci riferiamo a un insieme di patologie psichiatriche caratterizzate da un disagio psicologico più o meno intenso, da una serie di sintomi fisici variabili da persona a persona, che talvolta possono rendere più difficile la diagnosi della malattia, soprattutto nei bambini e negli anziani. Spesso si tende a pensare che la persona depressa sia “semplicemente” triste o, peggio ancora, che abbia poca volontà di guarire. Se la tristezza, al pari di altre emozioni come rabbia e disgusto, è generalmente uno stato dell’umore transitorio e conseguente ad avvenimenti oggettivamente o soggettivamente negativi, la depressione può essere invece definita come uno stato persistente di apatia, abulia e anedonia in cui l’alessitimia (intesa come incapacità di provare emozioni) non è più un fatto occasionale, ma diviene stabile e s’insinua nell’animo umano in modo profondo, totalizzante e totalitario. È vero, questa «malattia del secolo» (secondo una definizione che include sia la frequenza del verificarsi della depressione sia la diffusa tendenza a rispondere con sofferenza psicologica ad eventi di vita spiacevoli) è una patologia esistenziale caratterizzata da una vera e propria «biologia della depressione»: disregolazione di diversi sistemi neurotrasmettitoriali del sistema nervoso centrale, alterazioni delle funzioni ipotalamiche e dei ritmi sonno-veglia. Pertanto, quando un individuo presenta tali alterazioni biologiche, alcuni life-events potrebbero fungere da fattori scatenanti, tra questi: la perdita di persone amate e significative, la continua e stancante assistenza ai malati, la perdita del lavoro, difficoltà economiche, separazioni e divorzio, sono alcune delle situazioni di vita che possono slatentizzare o favorire la comparsa di sintomi depressivi.

Nel 2015, nel mondo, sono state diagnosticate depresse oltre 350 milioni di persone, di cui 4,5 milioni in Italia. Secondo l’Oms (Organizzazione Mondiale della Sanità) nel 2020 la depressione sarà la malattia mentale più diffusa.

È corretto dire che Paolo sia morto di depressione? Sì… ma il pregiudizio non gli ha dato la possibilità di salvarsi.

Per pregiudizio intendo un atteggiamento etichettante in cui si mette al centro la malattia e non la sofferenza individuale del soggetto, in cui – del paziente – si guardano le cartelle cliniche e non gli occhi, in cui ci si affretta a dare risposte senza ascoltare le domande.

Nella pratica clinica si tende a inviare con spontaneità agli specialisti, stessa spontaneità che non è usuale e usata verso psichiatri e psicoterapeuti. Di fronte a un paziente con sintomi di ansia o di depressione spesso il primo tentativo è quello di evitargli la visita psichiatrica, con una prescrizione di farmaci sulla base di una visione parziale ed esclusivamente sintomatologica del problema. Ciò deriva probabilmente dalla resistenza del paziente di fronte ad una sofferenza – quella mentale – che genera ancora paura, ma la paura alimenta il pregiudizio e viceversa.

Soltanto riconoscendo a mente e cervello in primis dignità e in secundis unicità e specificità, soltanto inviando il paziente da professionisti competenti, la malattia mentale può essere affrontata, senza essere vissuta come uno stigma o qualcosa da negare piuttosto che curare. E, per poter curare, non è sufficiente lenire i sintomi: l’approccio elettivo è proprio quello integrato, in cui i farmaci sono come una stampella all’interno di un trattamento psicoterapico più profondo.

Se Paolo fosse stato inviato subito in psichiatria, staremmo oggi parlando di Paolo?

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  • Psicologa e psicoterapeuta con approccio umanistico-esistenziale, si è formata tra lo Stretto di Messina e la capitale. Interviene principalmente sulle dipendenze e sui disturbi del comportamento alimentare; si interessa anche di psicologia penitenziaria. Svolge attività di consulenza per il Ministero della Giustizia ed è responsabile del laboratorio di psicologia del movimento “Contaminiamo i saperi” presso l’Università Mediterranea di Reggio Calabria.

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