Ajmer, India, città sacra dell’Islam, dove i turisti non passano e arrivano pellegrini da tutto il continente. Dove per entrare anche solo nel parco arruffato e decadente, regno di topi grossi quanto gattini, devi mostrare il passaporto ad un picchetto militare.
Lei è una briciola di due, tre anni al massimo. Sottile, nella sua tunichetta grigia, di panno povero. Un visino affilato e timido incorniciato dal minuscolo fazzolettino rosa che le fa da velo. Sì, già il velo. Viene da pensare che gliel’abbiano messo prima ancora che imparasse a camminare. Il padre, che quel velo le ha imposto, la tratta con un orgoglio e una dedizione esemplari. Povero, secco, con la stessa tunica dritta e anonima, la stessa pelle scura, lo stesso viso senza età, di quelli che sono sempre stati vecchi, di chi è cresciuto in fretta e non tra le agiatezze. Li accompagna un fotografo, un uomo massiccio, alto e con un bel barbone da guerriero.
Non so quale ricorrenza sia – non parlano inglese, la comunicazione avviene solo a gesti – ma la bambina è in quei giardini di antica origine imperiale per un servizio fotografico. Evidentemente è una data tanto importante per la famiglia da imporre delle foto per ricordare e celebrare l’evento. E quando si parla di foto, in India, una donna occidentale scura di capelli ma bianchissima di carnagione, per quanto possa sembrare assurdo, verrà sempre chiamata in causa. Ti fermano i gruppi di ragazzi sfacciati per chiederti un selfie, le famiglie in gita per chiederti una foto insieme, i padri premurosi per chiederti di accontentare le figlie facendo una foto con loro. Me la chiede il fotografo barbuto, felice di trovare un soggetto insolito per arricchire l’album che è chiamato a fare. Me la mettono in braccio, piccolo corpo quasi senza peso, senza un movimento, senza un sorriso, e ci fanno una foto così. Noi due sole. La piccola imbarazzata ed io ancora più imbarazzata di lei – non ho dimestichezza con i bambini.
Finisce così, senza scambiarci neppure un sorriso. A lei resta la foto e a me un ricordo frequente. E avrei voluto regalarti una foto migliore. Più affettuosa e più bella, al posto di quella donna rigida e impacciata. Brutta, con i capelli sudati e le occhiaie per la fatica di sopportare quel monsone spesso e caldo, come una trapunta grigia. Avrei voluto sapere il tuo nome ed averti lasciato un’immagine bella, di una madrina o una zia occidentale affettuosa. Non quel sorriso tirato e stanco. Un po’ spaventato dalla stranezza della situazione, un po’ involontariamente diffidente verso i tuoi poveri vestiti sporchi.
E vorrei sapere come stai e come cresci. Se sei ancora la pupilla di tuo padre o sei stata scavalcata da altre sorelle e soprattutto fratelli. E vorrei averti in braccio una volta ancora, per vedere se un abbraccio più convinto sarebbe riuscito a sciogliere la distanza che ci separa come una grata. E vorrei vederla, quella foto bizzarra, con i miei vestiti sportivi e la tua tunica grigia, con il mio falso sorriso e la tua serietà sincera, con i miei capelli ispidi e gonfi d’umido e il tuo fazzoletto rosa pallido. Bambina sconosciuta adottata nel click di una fotografia che non possiedo. Figlia, figlia, figlia.
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