“L’immagine carnefice”: da Abu Ghraib ai selfie, una presentazione visuale

Immagine carnefice

Gli autori de L’immagine carnefice provano a districare la matassa di problemi e tematiche suscitate dalle foto delle torture perpetrate dai soldati americani ai danni dei prigionieri di guerra nel carcere di Abu Ghraib, in Iraq.

Leggere questo libro significa forse porsi due questioni fondamentali:

Che cos’è l’immagine in questo mondo libero?

Qual è lo statuto dei media oggi?

Abu Ghraib è l’evento che inaugura la nostra epoca fondata sulle immagini e trafitta dalla diffusione delle immagini attraverso i media. Allo stesso tempo, è un evento figlio di altri due avvenimenti fondamentali: il G8 di Genova del 2001 e l’attentato alle Torri gemelle di New York del 11/9.

Il G8 ci ha detto che un mondo diverso è impossibile. Da lì sorge una modalità più aggressiva di repressione che, una volta per tutte, dichiara che fuori dal capitale non c’è storia. Il G8 di Genova scrive definitivamente e tragicamente il tramonto della storia dei tentativi di opporsi al capitale.

L’attacco al World Trade Center ci ha proiettato immediatamente fuori dal Novecento e ci ha detto che il terrore è diffuso ovunque e che la modalità di diffusione del terrore (e della governamentalità) ma nell’identico modo, della quotidianità, è tutta da rintracciare nel nuovo rapporto che si è instaurato con l’immagine – e con la diffusione dell’immagine – perché «viviamo una vita fondata sul guardare».

Gli autori de L’immagine carnefice fanno un’operazione fondamentale: analizzano il ribaltamento improvviso dal Novecento alla nostra epoca – soprattutto per quanto riguarda la nuova morfologia del potere – attraverso le due categorie dell’analisi estetica e dell’analisi mediale.

Che cosa ci dicono le foto di Abu Ghraib?

Abu Ghraib va forse intesa come vera e propria didattica della storia statunitense attraverso le immagini.

Quelle foto rendono evidente che «la forma non è una stilizzazione, ma l’unica modalità di esistenza del contenuto» e – sembra – anche del creatore, sono la storia della deriva degli ideali di una nazione, l’estremizzazione dello stesso percorso del personaggio di Il buio oltre la siepe, Atticus Finch, i cui ideali naufragano in Va’, metti una sentinella.

L’estetica di quelle foto è radicata nella profondità degli Stati Uniti. Le foto sono il ritorno di un rimosso che non muore mai. Le pose, infatti, le “performance” ricordano immediatamente i linciaggi agli afroamericani e per questo si inseriscono dentro la tradizione degli Stati Uniti più che dentro la tradizione occidentale tutta.

Siamo, e le foto ce lo ripetono continuamente, ancora di fronte allo strange fruit cantato da Billie Holiday nel 1939: la rappresentazione dell’orrore dei linciaggi negli stati del sud e l’emergere di un rapporto perverso con l’alterità e con la tradizione puritana.

Le “disposizioni” di Abu Ghraib sono il rovescio della pastorale americana, un cuore di tenebra che continua a battere.

Quegli scatti ci dicono che è in atto, con la guerra al terrore, l’istituzionalizzazione di un nuovo atteggiamento nei confronti del nemico da parte di un potere sadico che agisce per mano di esecutori narcisisti. I soldati delle torture, infatti, rappresentano il boia sadico che allo stesso tempo non è presente a sé stesso e maschera il proprio terrore attraverso pratiche narcisistiche, pratiche che hanno come scopo la cancellazione dell’Altro in quanto corpo aperto alle ferite, in quanto debolezza inguardabile ed inaccettabile, in quanto nuda vita.

 

Una delle soldatesse scrive ai familiari: «Abbiamo fatto delle foto, dovresti vederle».

Prende forma tra le macerie dell’Altro (e quindi dell’Io) la messinscena sadica: «Difendere i confini dell’Io, dello Stato, della democrazia, non solo comporta l’innesco di un’aggressività controllata, ma promuove allo stesso tempo dinamiche di potere permeate di sadismo». Se è vero che gli esecutori sono narcisisti, è anche vero che, in quanto esecutori, sono agiti da una istituzione sadica. O meglio, spingendo alle estreme conseguenze la sottolineatura che viene fuori dalle pagine de L’immagine carnefice, l’istituzione è sempre sadica, il sadismo è funzione dell’istituzione.

La creazione di un nemico sottomesso ha come effetto una familiarizzazione della scena traumatica e, allo stesso tempo, un modo di dirsi che “va tutto bene” anche al fronte, che si può persino simulare una scena goliardica con i nemici visti come delle matricole da iniziare (ed umiliare).

Quella che a tutti gli effetti è un’operazione estetica post-umana ci consegna una verità post-moderna: «nulla da raccontare, tutto da mostrare». È, questo, un atteggiamento che sembra investire anche la letteratura americana, basti pensare agli scrittori del cosiddetto realismo isterico, Franzen, Joyce Carol Oates, persino DeLillo, capaci di produrre pagine e pagine di parole per dirci poco o nulla, quasi a voler ribadire per contrappasso che non esistono più le grandi narrazioni e che quindi siamo condannati in letteratura ad una bulimia di parole e immagini che nasconde il vuoto narrativo.

Ritornando alle coscienze deformate degli aguzzini di Abu Ghraib, potremmo chiederci: attraverso cosa e come si sviluppa oggi la governamentalità? Come si deforma una coscienza?

«Si tratta di un potere che fa leva sul continuo incitamento, coinvolgimento, sulla sollecitazione, sulla cattura emotiva dei soggetti attraverso i media che contribuiscono a creare un immaginario scioccante».

Forse semplicemente attraverso i media che contribuiscono a creare l’immaginario tutto, che nutrono l’immaginario. Ecco come si deforma una coscienza, come si plasma un torturatore.

Ancora una volta: nulla da raccontare, tutto da comunicare.

L’analisi estetica deve cedere il passo all’analisi delle pratiche mediatiche, pratiche che sono diventate una vera e propria “condotta di vita”: noi siamo non più soltanto se comunichiamo, ma siamo la modalità attraverso cui comunichiamo.

L’orizzonte è assolutamente comunicativo, assolutamente mediale. I social media, disponendo ormai appieno del corpo sociale, vogliono sé stessi e ci impongono la comunicazione. Anche in questo è rintracciabile una frattura con il Novecento, con la letteratura del Novecento: il poema forse più importante del Novecento, La terra desolata di Thomas Eliot, è una lunga dichiarazione dell’impossibilità di comunicare e, restando sempre dentro la letteratura americana, anche Raymond Carver, John Cheever, Fitzgerald ci consegnano questa eredità. Comunicare è faticoso quando non impossibile.

Il nostro mondo mediale ha mantenuto e allo stesso tempo capovolto questa eredità: la nostra quotidianità è attraversata da questa urgenza di comunicare, nella maggior parte dei casi per non dire nulla se non che va tutto bene, come nella scena iniziale de L’odio di Mathieu Kassovitz: «Questa è la storia di un uomo che cade da un palazzo di cinquanta piani. Mano a mano che cadendo passa da un piano all’altro, il tizio, per farsi coraggio, si ripete: “Fino a qui tutto bene. Fino a qui tutto bene. Fino a qui tutto bene”».

Cosa ci ripetono le foto di Abu Ghraib se non “cara mamma, sto bene”?

Che cosa è stato fotografato?

«Si fotografa solo ciò che è reale o è la fotografia stessa a rendere reali i propri oggetti?».

Siamo di fronte al massimo splendore dell’immaginario. Forse davvero il secolo è deleuziano, forse davvero il virtuale è il reale.

Forse siamo davvero di fronte alla fine dell’esperienza, una fine dell’esperienza che non rappresenta la fine dell’orrore.

«Fino a qui tutto bene».

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  • Carmelo Rosace è nato e vive a Reggio Calabria, dove lavora come insegnante. Ha studiato filosofia all’Università degli Studi di Messina dove nel 2016 ha conseguito il dottorato di ricerca in Metodologie della filosofia.

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