“E noi, quando ci rivediamo?” domanda mellifluo e viscido Damien alla bella commessa di una libreria che sta resistendo pazientemente alle sue inopportune avances.
“In un’altra vita” risponde lei secca, voltando le spalle.
Qualsiasi donna si rivede in questo sprezzante scambio di battute, così come qualsiasi donna si rispecchia nell’insistenza degli sguardi, nei fischi, nelle battutacce e nei giochi infantili a sfondo sessuale.
Solo che in effetti in un’altra vita i due personaggi si re-incontrano per davvero, ritrovandosi come per incanto in un mondo parallelo, interamente femmista in cui sono le donne ad avere il potere. Un mondo completamente al femminile dove le donne, con una riscrittura della storia che assomiglia più a una sua cancellazione totale, rappresentano il sesso forte.
È questa la trama di Je ne suis pas un homme facil, il primo film prodotto da Netflix per la regia di Éléonore Pourriat, disponibile sulla piattaforma da qualche mese.
Il tentativo di questo film, a mio avviso riuscito solo in parte, è non tanto quello di abbattere gli stereotipi di genere, cosa che avrebbe bisogno di una maggiore profondità di analisi, quanto di sottolinearne in maniera preponderante, ossessiva e minuziosa la diffusione capillare. Tutta una specie di discorso di genere da cui saremmo circondati nostro malgrado in maniera tanto incosciente da non rendercene nemmeno conto. E la sua discriminatorietà emergerebbe proprio nel momento in cui si prova, quasi per gioco e con molta ironia, a invertire i ruoli, facendo “subire” agli uomini tutto ciò che le donne subiscono. Proprio in questo il film risulta molto efficace, vale a dire nei piccoli gesti semplici ma non banali a cui si fa maniacalmente attenzione: quando il protagonista costretto a depilarsi e a mostrare le gambe cammina per strada ricevendo apprezzamenti in una città tappezzata da uomini in lingerie, quando la “capa” dell’azienda in cui lavora apre le gambe sotto il tavolo per negoziare il licenziamento di Damien.
Altra cosa è dire che questa clito-crazia assomigli al mondo ideale: queste donne nerborute e aggressive, visibilmente maschie, che non si depilano né truccano, che non cucinano né badano alla prole ma guidano “macchinoni”, guardano le partite e dicono volgarità, assomigliano più a una brutta copia del prototipo maschile che si cercava di abbattere.
Ne viene fuori, ma forse è possibile che sia voluto, un totale appiattimento della questione rispetto a un unico genere, quello maschile appunto: in questo senso questo altro mondo non sarebbe un’altra cosa, ma semplicemente uno scimmiottamento dei gesti dei comportamenti dell’essere maschio. Il film sembra mostrare, non si dice anche se si vede bene, che esiste sempre e solo un genere, sempre un solo modo di guardare il mondo che corrisponde sempre e solo alla prospettiva fallocentrica anche quando un fallo non c’è.
Che le donne assumano tutti i simboli del maschilismo non importa, anzi non cambia nulla e sicuramente non migliora la situazione. Non ci troviamo ancora in mondo liberato tanto che gli uomini, per far sentire la loro voce per sentirsi meno soli hanno bisogno di rivendicare i loro diritti, hanno bisogno di militare e di manifestare per una parità e per rivendicazioni di genere. Sono i “maschilisti”! Fare come se le donne fossero uomini e fare come se gli uomini fossero donne secondo una presunta uguaglianza uniformante non ha senso, sembra far vedere il film.
Lo vediamo, per esempio, nelle figure del padre di famiglia massaia o della protagonista che paga per avere sesso.
In questo senso il film resta fortemente imprigionato all’interno del concetto di identità di genere con tutto ciò che culturalmente e socialmente significa e ha significato rispetto alla divisione dei ruoli e del lavoro. Ribaltare la situazione e immaginare, con una ironica vendetta, di far vivere l’uomo come se fosse una donna non scalfisce minimamente il problema e soprattutto non ci dice nulla sulla questione ancora aperta e dibattuta della crisi dei generi. Il riduzionismo che ha semplificato la nostra visione di noi stessi in uomo e donna, due generi distinti e separati, appare talmente obsoleto da sembrare irreale perfino in questo film. Eppure parliamo ancora questo linguaggio, l’ordine del discorso dominante reitera stereotipi che continuerebbero a permanere tali (e ingiusti) anche se a subirli fossero gli uomini. Inconsapevolmente lo fa anche la regista con la sua “rivincita” inefficace nei confronti dei sintomi piuttosto che della causa.
E la causa deve essere rintracciata, naturalmente, nel dispositivo culturale che respiriamo.
Una critica reale della violenza di genere dovrebbe passare, forse, attraverso l’uso di immagini altre, parole altre, un linguaggio altro, che non nomini un altro modo di essere donna ma un altro modo di essere al femminile.
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