Un romanzo folgorante
Il romanzo I leoni di Sicilia di Stefania Auci si sviluppa nell’arco di coordinate temporali storicamente piuttosto complesse, ovvero dalla fine del Settecento sino allo sbarco di Garibaldi in Sicilia, e si muove principalmente nello spazio del meridione italiano; in realtà è possibile, sin da subito, anticipare che a far da protagonisti alla narrazione non sono soltanto gli esponenti scelti della famiglia Florio quanto piuttosto una Palermo prorompente e sinestetica, nondimeno il fantasma, rarefatto e sempre riecheggiato, di Bagnara Calabra.
Quello che mi ha colpito immediatamente del testo è l’infinita grazia e la preziosa qualità della scrittura, che non si assottiglia mai, come pure sarebbe potuto accadere, lungo lo scorrere di 437 pagine, confesso, lette avidamente in poco più di 24 ore: I leoni di Sicilia è un romanzo folgorante, la sua bellezza corre veloce come una rivelazione.
I leoni di Sicilia strega il lettore
Non sono una profonda conoscitrice della storia familiare e imprenditoriale dei Florio, né tantomeno della ricca bibliografia e delle fonti documentarie che l’autrice ha consultato per anni, come appare evidente da un’attenta lettura del volume; dunque il mio interesse rispetto alla sua operazione letteraria è del tutto estraneo alle minuziose rispondenze, che talora vengono ricercate nelle saghe, fra il racconto e la Storia, dimenticando che il romanzo è una rappresentazione e che, per ciò stesso, ha il compito di rendere manifesti aspetti che esclusivamente l’occhio lirico, e non la fonte storiografica, possono restituire.
Un anomalo ciclo dei vinti
Auci ha una straordinaria capacità di delineare ambienti e personaggi, stregando il lettore, incollandolo alla crescita economica di una famiglia che, in qualche modo, costituirebbe un anomalo ciclo dei vinti: sebbene il venire alla ribalta dei Florio, plasticamente accompagnato dal monumentale levarsi di ville e dimore degne di un’ascesa così sfolgorante, appare, ad un certo punto, come un fenomeno senza pari, la sete di riscatto dei protagonisti, dalla loro iniziale connotazione di “putìari” e “bagnaroti”, permane immutata. Il bisogno di rivalsa fa da pungolo all’inseguimento di obiettivi sempre più grandi per gli esponenti maschili di Casa Florio, mai si seda e sempre si sedimenta oscuro negli animi di chi lo prova. Per questi motivi, anche Vincenzo Florio apparirà, in fin dei conti, come un vinto: materialmente vincitore, tuttavia intimamente sconfitto dall’altrui disprezzo, che non riesce a scrollarsi mai di dosso e che lo logora dentro.
I sentimenti dei personaggi si fanno carne
La potenza corporea, con cui vengono descritti i sentimenti, è uno dei tratti più interessanti della scrittura di Stefania Auci: il rancore si fa pelle e scialle in Giuseppina Saffiotti, fermamente ancorato nella sua carne (in parte asciugato dalla tristezza e dal rimpianto sul finire dei suoi giorni), schizza fuori dalle sue labbra strette e dalle sue affermazioni spietate. In seguito alla morte del marito Paolo Florio, e con lui di un muro di incomprensioni che le ha serrato la vita in una pietra dura, Giuseppina avrebbe potuto riscattarsi da un’assenza di gioia livida, che però sceglie di cullare, come l’adorato Vincenzo in fasce, per il resto della sua esistenza, rinunciando ad amare apertamente il cognato Ignazio e a qualsivoglia forma di dinamismo trasformativo.
I romanzi hanno il dono di allontanarci dalle verità uniche, ci lasciano vedere ben più lontano, oltre la mitezza e la dignità, la fermezza e la determinazione, che caratterizzano Ignazio Florio, qualcosa di ancor più umano dell’umano: il tratto rivoltante, la debolezza di nascondere i nastri scintillanti di un corsetto, un dono d’amore, per sempre al fondo di un baule, seppellito, laddove disseppellito e scoperto rimarrà sempre il poco tempo che ci divide dalla fine e la nostra incapacità di comprenderlo.
Tra feroce spregiudicatezza e amore
L’audace lungimiranza, l’ambizione vorticosa vestono, invece, la feroce spregiudicatezza di Vincenzo Florio, mai dimentico delle proprie origini, come testimonia il suo modo di trattare con i lavoratori, sollecitandoli a sentirsi parte di un’impresa in cui lui è il primo a rimboccarsi le maniche, e a tempo stesso sempre desideroso di emanciparsi da quelle origini, che troppo spesso sono state brucianti per il suo orgoglio. Sulla tela compatta dell’animo fermo di Vincenzo, però, si apre una fenditura, un taglio che dà il senso all’intero, una crepa salvifica nel suo monolitico intento di accumulare sempre più denaro: Giulia.
Giulia Portalupi si nutre di un amore folle e testardo, rincorso all’amaro prezzo dell’emarginazione sociale, e in barba a qualsiasi convenzione precostituita, lotta con la forza incrollabile di chi sa che l’unico bene da perseguire è la felicità, una felicità che Giulia sa potrebbe trovare soltanto accanto a Vincenzo, nonostante la sua durezza, i suoi rifiuti, il suo carattere terribile. Giulia è più forte di quella tenacia con cui i Florio hanno determinato un impero di inestimabile valore, Giulia è una vincitrice, protesa pervicacemente verso quella bellissima verità che la toccherà sul letto di morte di Vincenzo, come in una poesia di Rebora (“verrà d’improvviso quando meno l’avverto: verrà quasi perdono di quanto fa morire”), e verrà a dirle quanto Vincenzo l’abbia amata.
Accanto ai Florio si snodano figure paradigmatiche, si pensi solo a quella di Carlo Giachery e alla sua capacità architettonica di leggere gli spazi, come anche i desideri di Vincenzo Florio e della sua vista ulteriore, trasformarli in forme, consegnarli a Palermo come un destino.
I leoni di Sicilia e i suoi luoghi
I luoghi de I leoni di Sicilia sono luoghi di incanto, Marsala, Favignana e poi Palermo nella sua prismatica bellezza, nell’alternarsi delle stagioni, nei profumi delle spezie e del mare, nei vicoli, fra gli scogli e il tramonto, nel suo eterno trascolorare di pene, con le sue inesauribili contraddizioni, le sue crudeltà, le chiusure, ma sempre così intensa nel parlarci dello sforzo costante di alzarsi in volo per abbracciarla tutta e non lasciarla fuggire via.
I leoni di Sicilia rappresenta lo spirito di un popolo
Il romanzo della Auci è anche il racconto incredibilmente contemporaneo dello spirito di un popolo, in cui molto probabilmente molti siciliani si riconosceranno e qualsiasi lettore imparerà a riconoscerli, uno spirito polivalente e multiforme, impossibile da raccontare, nonostante l’autrice sia riuscita in modo eccellente nell’impresa, e che mi piacerebbe sintetizzare in un solo momento, in una sola espressione, forse sparuta nell’immenso intreccio, ma in grado di incistare, nel giro di pochissime parole, molteplici inclinazioni e tendenze.
Alla nascita del figlio maschio, arrivato dopo due bambine, fuori dal matrimonio con Giulia, Vincenzo deciderà infine di sposarla, mandando all’aria l’ipotesi di un’unione prestigiosa con una famiglia altolocata, l’acida gelosia materna e il mondo intero; lo stesso prete della Chiesa di Santa Maria della Kalsa, che aveva battezzato le prime due bambine e il terzo figlioletto, dopo aver officiato il matrimonio, esclamerà, con quell’arguta e in parte sommessa esasperazione, un sicilianissimo: “E chi ci vulià?”.
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