Intorno a “Estetica postumanista” di Marchesini. Riflessioni post pandemia

Ho letto soltanto in questi ultimi giorni il saggio di Roberto Marchesini, Estetica post umanista, dato alle stampe poco meno di un anno fa: non è un caso che le letture avvengano in un istante ben preciso delle proprie esistenze e non al “momento giusto”, posto che probabilmente, letto in uscita, avrebbe assunto un altro tipo di peso, forse più legato al protrarsi di antiche ricerche. La prospettiva di studi dell’autore mi è stata a fianco, nel tempo, come fondamentale guida ermeneutico-filosofica: ho amato profondamente due dei suoi testi del passato, Post Human[1]ed Emancipazione dell’animalità[2]. Non così ho sentito accadermi per Estetica postumanista, e non tanto perché non abbia avvertito la consueta intima rispondenza con le indagini portate avanti da Marchesini, quanto piuttosto perché sento abbia costituito per me un’esperienza di tipo ben diverso, una costellazione di tensioni desiderative legate all’emergenza o al post-emergenza Covid 19.

Il testo rielabora gran parte degli assunti teoretici che il filosofo ha maturato negli anni, nella fattispecie con una flessione accentuatamente estetologica, e dunque a me molto cara: le riflessioni si annodano intorno al contrasto fra un paradigma di tipo umanistico e uno di tipo postumanistico, acclarando, altresì, scopertamente tutte le difficoltà definitorie dell’uno e dell’altro caso. Certamente Marchesini torna ribadire, anche in questi luoghi, il presupposto fortemente essenzialista dell’umanesimo, l’opposizione mantenuta fra natura e cultura, tutte le strettoie del mito dell’incompletezza dell’uomo come inatteso supporto al mito della purezza; per converso, descrive l’orizzonte postumanista come consapevolezza di aperture ed ibridazioni, di slanci che ci allontanano dall’idea di un regresso o, ad ogni buon conto, di un ritorno al fondo animale originario, ed anzi evidenzia, anche in questo lavoro, lo scatto propulsivo ed evolutivo del diluirsi delle forme, l’aurorale spinta innanzi che traccia una condizione in cui animale e uomo, come anche natura e tecnologia, smettono di scrutarsi da una soglia (o ai confini delle proiezioni) e partecipano l’uno dell’altro.

Teriomorfismi e tecnomorfismi sono stati indiscussi protagonisti lungo l’arco di un’ontologia relazionale che Marchesini ha sempre saputo orchestrare con chiarezza e puntualità nelle sue analisi teoretiche, nel segno del declino definitivo di un’opposizione, fra l’altro dichiarabile soltanto a livello programmatico, tra naturale e artificiale; in questo saggio, però, oltre alla nuova cornice, rappresentata nei termini di un’estasi ibridativa, ciò che entusiasma, e qui vuole rappresentare un invito alla lettura, è l’impostazione data alla questione del corpo. Marchesini lega alle dimensioni del bello e del sublime (ai loro gradienti e non ad una loro sedicente polarità), la corporeità e lo sviluppo di due diverse intenzioni, l’umanistica e la postumanistica.

«L’estetica così rivisitata ci parla di una sospensione, un prepararsi fisicamente all’incontro, un liberare sensazioni che anticipano l’impatto. È indispensabile iniziare, cioè dalla proprietà/tendenza della carne a deformarsi per costruire copule con ciò che incontra nel suo cammino e ad avvertire – e qui si situerebbe l’esperienza estetica- questo suo predisporsi alla metamorfosi ibridativa. L’estetica postumanista sembra perciò defocalizzare dall’immagine finita del corpo, da quella sua ostensione che comunque celebra un punto d’arrivo e sancisce l’impermeabilità a incontri successivi, riducendoli a vestizioni»[3].

Ecco, quindi, che la carne torna ad essere descritta nella sua natura epifanica, in grado di anticipare o meglio vestire un universo intero di partecipazioni. Alcuni bellissimi paragrafi si soffermano sulla questione della nudità e dello spogliarsi, a partire dalle sue manifestazioni figurative in senso umanistico e postumanistico; sarebbe estremamente affascinante se si aprisse, in tal senso, un dialogo, pur nella differenza di posizioni, fra la dialettica nudità-vestizione descritta dall’autore e quella descritta da Agamben fra grazia e nudità[4].

L’intero testo alimenta e sollecita visioni, oscillando in modo ponderato tra il punto di vista della fruizione e il punto di vista della creazione: «L’artista si rappresenta come entità ibrida immersa in un mondo che lo pervade e verso cui manifesta, semmai, un’iperconnessione. L’animalità viene rappresentata come dimensione attraversabile e non come deriva o controlateralità, mentre l’attraversamento viene descritto come emergenza dell’umano, quantunque ciò possa sembrarci controintuitivo. […] Possiamo dire, allora, che mentre l’umanesimo ci appare come un appello alla leggerezza, al basso gradiente di contenuti, la poetica postumanista fa riferimento a un eccesso di contenuti, quasi una dissipazione di queste»[5].

Forse, attraverso queste brevi notazioni che ripercorrono una piccola parte del testo, può apparire chiaro perché questa lettura mi sia apparsa una sorta di appello al desiderio e al risveglio, come già anticipato in apertura: la dimensione estetica, definita da Marchesini, è una dinamica interattiva di coniugazioni e accoglienze, di esplorazioni e deformazioni, e dallo stato di penoso, ancorché necessario, isolamento in cui ciascuno di noi ha dovuto versare durante la pandemia (e di sicuro molti di noi in condizioni invero difficili e complesse), queste pagine possono trasformarsi in richiamo. Un richiamo che nulla ha che fare con l’incompletezza e gli esoneri, da sempre contestati dall’autore, quanto piuttosto con un sentimento che lo stesso autore definisce, sul finire, di fragilità. Ancora una volta, nella mia vita, mi è sembrato di trovare una risposta al limite e alla finitezza, in questi mesi aggravati dalle contingenze inerenti il Covid 19, nell’arte e nell’esperienza estetica: l’autore riesce ad esprimere la propensione ad un sodalizio e ad una continuità con la natura, proprio in seno a riflessioni estetiche, fornendoci una chiave non soltanto per comprendere ciò che non siamo riusciti a sopportare in questi mesi ma soprattutto per sopportare ciò che davvero non è più sopportabile qui ed ora. 

Due ultime considerazioni a margine di questo testo che, ripeto, suggerisco di leggere come autentica opportunità riabilitativa, una prima è inerente il costante reiterare uno spartiacque fra umanesimo e postumanesimo, il quale, alla luce dell’esperienza estetica, ci induce tuttavia a chiederci se è possibile, al di là dei paradigmi e delle reti concettuali, credere si sia mai potuti essere davvero umanisti e non piuttosto da sempre postumanisti. La seconda invece ha che a fare con gli esempi artistici citati dall’autore, in genere legati all’universo della performance, citazioni e analisi finissime che ricordo, almeno da Post Human, quanto abbiano costituito per me un potente strumento di lettura. Ciò nondimeno, ed esattamente in relazione alla questione appena posta (ovvero se mai, almeno in arte, si sia riusciti a fingersi pienamente umanisti), mi chiedo se l’immagine più folgorante di queste connessioni non possa essere trovata, per fare esclusivamente un esempio decisamente precedente, nella produzione di Franz Marc. Anche se spesso ricorre nella sua riflessione scritta la pretesa di separare la natura dall’arte[6], l’animalità e l’umanità, in Marc, appaiono indistinti in unico armonioso ritmo di sistole e diastole sulla tela: caprioli, cavalli, tigri, donne e cascate, nella controllata, eppure fluidissima (diremmo inconsapevole), distillazione dei colori, hanno l’urgenza di narrare il nodo che ci lega e ci avviluppa, il continuumfra umano e non umano, che lungi dal bloccare o spingerci indietro ci porta avanti, in questo universo di vulnerabilissime partecipazioni, che ora più che mai credo possa farci tornare invincibili.

Edvige Galbo


[1]Cfr. R. Marchesini, Post Human. Verso nuovi modelli di esistenza, Bollati Boringhieri, Torino 2002.

[2]Cfr. Id., Emancipazione dell’animalità, Mimesis, Milano 2017.

[3]Marchesini R., Estetica Postumanista, Meltemi, Milano 2019, p. 10.

[4]Cfr. Agamben G., Il regno e il giardino, Neri Pozza, Milano 2019; Id., Nudità, Nottetempo, Roma 2009.

[5]Marchesini R., Estetica Post Umanista, cit., pp. 149-50.

[6]Cfr. F. Marc, La seconda vista, (a cura di) E. Pontiggia, SE, Milano 1999.

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  • Edvige Galbo, nata a Palermo, PHD in Metodologie della Filosofia e docente di Storia e Filosofia, divora libri che restringono sempre di più lo spazio in cui vive ma allo stesso tempo anche un pericoloso disincanto. Le sue ricerche si muovono principalmente nel campo dell’estetica. Avrebbe milioni di ragioni per smettere di farlo, ma le piace continuare a credere che “alla libertà si arriva solo attraverso la bellezza”.

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