India: storica sentenza, un passo avanti per fermare il dramma delle spose bambine

spose bambine

Un mese fa, una storica sentenza ha fatto gioire i sostenitori dei diritti civili in Asia e nel mondo: l’India ha decretato come reato di stupro avere rapporti sessuali con minorenni, anche se precedentemente, “legalmente” sposate. Un piccolo, grande passo verso l’estinzione della pratica dei matrimoni con spose bambine. Evento diametralmente opposto alla piega che in questi giorni sembra star prendendo la questione in Turchia, almeno per come riportato dai media occidentali.

«Li hai quindici anni, bambina?»

Sempre così. Un ritornello continuo. Uno dei primi ricordi che mi vengono in mente quando penso all’India è questa domanda inespressa, che bussava alle tempie come qualcuno impaziente di vincere la resistenza di una porta chiusa. Strada dopo strada, città dopo città. «Li hai quindici anni?», rivolta a tutte quelle ragazzine con uno o due bambini al seguito. Di già.

Rajhastan, luglio, da qualche parte tra il Jaipur e Bikaner. In uno dei villaggi sperduti tra le rocce, i cespugli taglienti e le caprette al pascolo di bambine, si accinge a scendere una ragazza. È il terribile autobus della categoria “sleeper”, ossia tagliato in due: posti a sedere sotto, sudice cuccette orizzontali sopra, nei quali i passeggeri si arrampicano e spariscono —  spesso solo dopo aver poggiato i piedi sulla tua spalliera, per aiutarsi nello sforzo. Lei emerge da una di quelle, scende e si ferma ad attendere con la compostezza di una regina. È bellissima, sembra uscita da un batik: il corpo sottile e cesellato e il viso semplicemente perfetto, in ogni lineamento. Al naso, porta con disinvoltura il grosso medaglione d’oro tipico di quest’area. In una delle cittadine ocra e blu del deserto, dove gli uomini ostentano colori sgargianti per i turbanti e le donne camminano con il velo del sari completamente calato sul viso per proteggersi dalla polvere, scende, portando in braccio un neonato e per mano un altro bambino di tre-quattro anni. Poteva avere al massimo diciassette anni.

Li hai quindici anni, bambina? Ne hai almeno tredici?

Saranno i panni grezzi in cui è avvolto, ma quel neonato che stringe al seno, raggomitolata per terra con la mano tesa a supplicare elemosina, sembra più grosso di lei. Non ha gioielli alle orecchie, al naso e alle braccia, solo poveri panni, ma un viso ancora bello e fiorente. Forse precipitata da poco nella miseria del mendicare. Forse rimasta vedova senza nessuno che abbia voluto occuparsi del suo sostentamento, forse, vittima di un abuso, è stata ritenuta “perduta” e scacciata insieme al frutto dello scandalo… In ogni modo è lì sotto il monsone con la mano tesa e le sopracciglia aggrottate, ribelli. Mi rimane impressa per la giovanissima età e per quello sguardo strano, non implorante ma quasi furioso, come ad esigere una possibilità di vita piuttosto che implorarla. Siamo a Pushkar, la città sacra del lago di Loto, dove è stata gettata parte delle ceneri di Ghandi e Nheru, dove le vacche sacre ingrassano sulla fame degli uomini. Accanto, l’ambulatorio, forse lo sportello medico, non so bene come chiamarlo, perché in realtà è solo una porta con un piccolo interno, un po’ sala da visita e un po’ magazzino, dove opera un infermiere-farmacista a prima vista più derelitto della gente in fila nel fango sotto la pioggia, schiacciata su un lato della strada per consentire il viavài sfaccendato dei turisti occidentali.

Troppi figli in India, e troppi di madri troppo giovani. Le strade, con la loro miseria spontanea e spudorata, che ride in faccia a ogni decoro, fanno particolarmente male per la condizione dell’infanzia in generale. Non solo delle ragazze, ma di tutte quelle bambine e di tutti quei bambini abbandonati come pneumatici guasti ai bordi dei marciapiedi, sotto la pioggia e nel fango, o con le mosche per unica coperta nei sonni comatosi sul pavimento sporco delle stazioni, o direttamente sull’asfalto delle strade. Certo, non sempre è così. Si dice India per comodità, ma se ne intendono almeno cento, come già Forster sapeva. A Connaught Place, la piazza modaiola di New Delhi, e nei locali sul lago di Udaipur, nel Rajasthan meridionale, ragazzine in shorts e t-shirt prendono dolci e caffè insieme ai loro coetanei, proprio come in ogni città del mondo. A Bikaner, una bambina viene portata in braccio dal padre con estrema attenzione. Ha la caviglia ingessata e un rametto di qualche pianta scaramantica intrecciato intorno alla medicazione moderna, perché in India, si sa, il tempo e il  mito si rincorrono ad ogni angolo. Sembra felice di quella attenzione, lancia sguardi spavaldi alla strada mentre il padre arranca in salita sotto il sole liberatosi dal monsone e l’aria densa di un’umidità solida, callosa. 

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  • Nata a Messina, ma con contaminazioni calabresi da parte di padre e Arbreshe da parte di nonna; ama vivere sospesa tra le due sponde dello Stretto, mescolando l’intima e continua confidenza con il mare, con le memorie d’infanzia legate alle campagne tra Crotone e Catanzaro. Si occupa di antropologia filosofica e fenomenologia tedesca, con un focus ossessivo sul corpo e l’intreccio tra biologico, esistenza e pensiero che esprime. Si allena ad osservare il mondo tramite il giornalismo, la pittura ed escursioni in vari continenti.

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