Terza opera da regista del talentuoso animatore Sunao Katabuchi (già assistente di Hayao Miyazaki nello studio Ghibli), In questo angolo di mondo (Kono Sekai no Katasumi ni – この世界の片隅に) è un lungometraggio di ambientazione bellica che si inserisce a pieno titolo in quella tradizione del cinema di animazione che rielabora il trauma subito a Hiroshima e Nagasaki, e che vede come punti fermi opere imprescindibili come Gen di Hiroshima di Masaki Mori e Una tomba per le lucciole di Isao Takahata. La vicenda della giovane Suzu si affianca quindi a quelle di Seita, Setsuko e Gen nel raccontare la Storia attraverso una lente puntata sulla vita quotidiana e sulla gente comune, partendo dagli anni ’30 e fotografando uno scorcio di Giappone lontano nel tempo e ormai scomparso.
Tratto dall’omonima opera a fumetti di Fumiyo Kōno del 2007, adattata cinematograficamente dallo studio Mappa (grazie anche a una campagna di crowdfunding), il film ha mietuto successi di critica e pubblico sia in patria che all’estero, aggiudicandosi premi al Japan Academy Prize, al Toronto Japanese Film Festival e al prestigioso Annecy International Animated Film Festival.
Proiettato a settembre nei cinema italiani, Dynit propone dal 31 gennaio un edizione in DVD (Audio Dolby Digital 5.1ch, Video MPEG2 PAL, 16:9 Anamorfico, 1.78:1) e in BD (Master Audio 5.1ch, Video MPEG4-AVC, 1080p, 23.98fps, 1.78:1), distribuita da Terminal Video e arricchita da una serie di interessanti contenuti extra, tra i quali spiccano l’intervista al regista Sunao Katabuchi e al produttore Masao Maruyama, un reportage intitolato Hiroshima e Kure: prima e dopo, la sigla di testa in versione italiana (cantata da Giulia Caproli e Stefano Bersola) e un booklet di 32 pagine con i disegni preparatori del progetto.
La vicenda narra di Suzu Urano, ragazza di umile estrazione, sognatrice “con la testa fra le nuvole” e con una spiccata sensibilità artistica. Nel 1944, dopo un matrimonio combinato, si trasferisce da Hiroshima nella vicina Kure, città portuale dove si concentra il grosso della flotta nipponica. Qui viene accolta dalla famiglia di suo marito, Shusaku Hojo, funzionario della marina imperiale. Con la militarizzazione del Paese ai massimi livelli e il nemico alle porte, Suzu deve imparare l’arte della sopravvivenza nelle difficili condizioni di vita in tempo di guerra. I continui bombardamenti dell’aeronautica statunitense rendono impossibile l’esistenza agli abitanti di Kure, costretti a rintanarsi nel sottosuolo a ogni richiamo delle sirene antiaeree. Anche la vita di Suzu è sconvolta, ma con tenacia, un pizzico di creatività e tanto coraggio, riesce a governare dignitosamente la casa con gli scarsi mezzi a sua disposizione.
La messa in scena è allestita con precisione storica e il regista supera sé stesso quando si sofferma sulla vita domestica, con inquadrature che ci ricordano le geometrie e le rigorose composizioni di Yasujirō Ozu. Il racconto di formazione gli consente di tratteggiare con estrema grazia il ritratto della giovane donna, e anche le figure che le vivono accanto sono caratterizzate meticolosamente, con particolare attenzione agli altri personaggi femminili. Il tono della pellicola è affettuoso e nostalgico, e la sotto-trama romantica esalta la psicologia della protagonista.
Nella prima parte il film riesce a essere delicato come la tavolozza dai toni pastello a cui attingono gli animatori. Vibranti pennellate infondono vita alle scene con un gusto squisitamente pittorico. Sognanti come la protagonista, ci rivelano un’artigianalità (forse debitrice verso le ultime opere di Takahata) in netto contrasto con le tendenze foto-realistiche di certa animazione contemporanea. I raffinati disegni ci restituiscono la luce del sole, gli aghi di pino agitati dalla brezza primaverile e le nuvole fluttuanti, con un calore che l’azione dal vivo non potrebbe mai rappresentare.
Il Giappone pre-bellico di Suzu è un luogo idilliaco, un posto dove le persone vivono in armonia con la natura sulle soavi note dell’Adeste fideles, e questo paese così accogliente risplende di fulgida bellezza agli occhi della giovane artista. Utilizzando migliaia di fotografie d’epoca, Katabuchi ricrea i contesti urbani e rurali degli anni ’30 e ’40 e cattura con sorprendente realismo la vita di quel mondo lontano. La ricostruzione è curata nei dettagli e si sofferma sulla meraviglia del paesaggio naturale in una maniera ancora una volta vicina all’estetica ghibliana. In questo scenario si muovono i vari personaggi, caratterizzati da un design pulito, morbido ed essenziale.
Il racconto è cadenzato da brevi episodi e da didascalie che ci ricordano puntualmente a che punto siamo della Grande Storia, quasi come un diario che, inesorabilmente, funge da terribile conto alla rovescia per quello che succederà in quel fatidico 6 agosto 1945, mentre gli schizzi a matita della protagonista ci trasmettono la sua poetica visione del mondo. Le scene domestiche, teneramente intimiste, racchiudono aneddoti che hanno il sapore dei ricordi, come se una donna matura raccontasse ai suoi nipoti di come abbia imparato a disegnare, a cucinare, a cucire un kimono in quei tempi lontani. Questo ritmo erratico di contemplativa lentezza ben presto subisce una svolta, quando i raid aerei diventano la normalità e la parabola di Suzu si fa più intensa e drammatica.
Il film mantiene un registro emozionale pacato, senza plateali slanci patetici. L’eroismo con cui Suzu affronta la vita è dimesso e silenzioso: «Sei così ordinaria!», le viene rimproverato bonariamente dal suo compagno che sta per partire soldato. Il suo cuore d’artista è come un diaframma che le permette non solo di sopravvivere all’ombra della morte, ma di vivere in essa. L’esperienza di osservare la distruzione attraverso gli occhi di Suzu ha un impatto soffuso e attenuato per lo spettatore. La gioia di vivere e il modo quasi stoico della protagonista di interiorizzare gli orrori la fa apparire appena scalfita da ciò che succede.
Le sofferenze mettono a dura prova la fervida immaginazione della nostra eroina, ma non bastano a spezzare i suoi sogni e a spegnere la sua innata capacità di assaporare la vita per quello che semplicemente è: «Anche in guerra, le cicale friniscono e le farfalle volano!». Talvolta la limpida purezza di Suzu si riflette nella luminosa innocenza della piccola Harumi, che in un’occasione, sulle note di Moonlight Serenade, ingenuamente le chiede: «È questa la musica del nemico?».
Nel momento più buio del film è sufficiente un lugubre sfondo nero squarciato da caotici segni bianchi immersi in un silenzio assordante per toccarci nel profondo e farci rimanere atterriti dall’oblìo. In questa seconda parte il racconto diventa sempre più dolente; troppo spesso Suzu si ritrova a fare i conti con la tragedia. Sperimenta a sue spese un grave incidente e si fa essa stessa triste metafora delle condizioni del suo Paese, che non sarà mai più come prima.
Nel terzo atto l’abisso di devastazione arriva puntuale, inevitabile. Il disastro atomico non di meno viene trattato con misurata distanza e preannunciato una sola volta, quando Suzu e Harumi osservano dalla collina un nuvolone carico di pioggia, come un cupo presagio di morte. La stessa detonazione di Little Boy non accade in maniera brutale (come in Gen) ma lontano e fuori campo. I personaggi avvertono solo un lampo fugace, uno stormire di foglie al vento e una nube dalla forma più strana di qualsiasi altra mai vista prima (ma noi la conosciamo bene e fa immancabilmente correre i brividi lungo la schiena).
Katabuchi non perde mai di vista la bellezza visiva del film. In questo senso è esemplare la sequenza in cui Suzu, durante un raid, si sorprende ad osservare con incanto le terribili esplosioni, trasfigurando le bombe in immagini pittoriche, come poetiche macchie di colore che cadono su una tela blu come il cielo. Questa intuizione è funzionale per descrivere la sensibilità artistica di Suzu ed è al contempo un meta-commento sull’idea stessa di film, che arditamente mescola arte e implacabile cronaca storica. Nell’epilogo, con il conflitto ormai alle spalle, a differenza della disillusione spietata e senza via d’uscita di Seita in Una tomba per le lucciole, alla dolce Suzu non resta che accettare le barrette di cioccolato dei soldati americani e, in ultima analisi, farsi personificazione stessa della speranza per un nuovo orizzonte nel Giappone del domani.
Il fungo atomico che fiorì sopra Hiroshima è da tempo dissipato, ma in un certo senso incombe ancora sopra la città giapponese come un’oscura coltre di fuliggine. Ogni anno, la sera del 6 agosto, gli abitanti di Hiroshima si riuniscono lungo le rive del fiume Ota per rilasciare una moltitudine di lanterne a conclusione di una cerimonia commemorativa. È un giorno dedicato alla memoria in cui gli hibakusha – i sopravvissuti alle esplosioni nucleari – si raccolgono intorno alla Genbaku Dōmu (Cupola della Bomba) per elaborare il proprio dolore e anelare a un futuro di pace. La guerra priva le persone della capacità di sognare, rendendo la realtà troppo opprimente perché la luce dell’immaginazione possa ancora risplendere attraverso le tenebre. In questo angolo di mondo lascia in tal senso un segno indelebile e ci offre un’ottima occasione per riflettere.
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