Sigmund Freud, nella sua rilettura della figura cosmico-storica di Mosè, ha condotto verso la naturale conclusione teorica un percorso avviato con il suo studio sull’origine del totem. Per dirla brutalmente, ciò che veneriamo nel totem o nel maestro è la stessa cosa che abbiamo precedentemente osteggiato e distrutto, per invidia, gelosia, rivalità, odio nei confronti dell’Altro. Se il padre dell’orda viene ucciso dai suoi stessi figli, desiderosi di sottrargli il monopolio delle donne, successivamente il senso di colpa porta gli stessi fratelli assassini ad astenersi dall’unione incestuosa con le donne del clan e a far risorgere il padre ucciso sotto forma di totem-feticcio. È in questa cornice psico-antropologica che Freud tenta di rileggere il Mosè mitico-storico, ucciso dalla sua stessa gente e in seguito eletto a “spirito-guida” del popolo eletto.
In Totem e tabù (1913), come detto, l’omicidio del padre dell’orda primordiale ad opera dei suoi figli segna l’inizio della società edipica, marcata dal divieto di unione incestuosa con la madre (e le donne del clan) e dalla totemizzazione o glorificazione del padre. Freud istituisce così, in seno alla psicoanalisi, un percorso psico-antropologico di liberazione dal carattere acefalo, illimitato e distruttivo della pulsione. A frenare la spinta dei fratelli dell’orda al godimento illimitato dei beni sottratti al padre è il monito kleiniano del senso di colpa, pietra miliare dell’istituzione di una comunità umana: il contratto simbolico è fondato tanto sulla Legge e sull’interdizione interne al clan, quanto sulla spinta esogamica alla formazione di legami con gruppi esterni. Il tabù materno e il totem paterno, ossia il sistema di divieti che impedisce il proliferare di un “familismo amorale” in seno al clan, sono l’occasione per avviare un percorso di crescita al di là del recinto tribale — di incontro con l’Altro.
Su questa falsariga, nel tardo scritto freudiano L’uomo Mosè e la religione monoteistica (1939), si assiste alla trasposizione della figura del genitore mitico in quella del Mosè israelitico. L’azione mosaica, liberatrice per il popolo ebraico, passa ancora una volta attraverso il sacrificio — attraverso l’assassinio del padre. Freud avanza nel saggio l’ipotesi storica dell’uccisione di Mosè da parte del popolo che pure egli aveva affrancato, e allo stesso tempo offre un’interpretazione coerente col suo modello psico-antropologico: la stessa nascita della religione monoteistica ebraica non sarebbe altro che il precipitato culturale del senso di colpa per l’uccisione di Mosè.
In altri termini, la costruzione religiosa rappresenterebbe così il corrispettivo sociale del processo individuale di riconciliazione tra istanze pulsionali, rimproveri superegoici e conciliazione o integrazione di aspetti buoni e cattivi del Sé e dell’oggetto. Si assiste così al passaggio dal padre-carnefice odiato dalla propria progenie al padre-vittima ucciso dai figli edipici, passaggio da intendersi come momento necessario alla costruzione di una relazione simbolica tra padri e figli: è questo il contributo teorico di Gerard Pommier, psicoanalista lacaniano.
La funzione civilizzatrice del senso di colpa ci porta nell’alveo dell’eredità post-freudiana, spostando il focus, con Jacques Lacan e non solo, dall’ambito della pulsione a quello della relazione oggettuale, dal godimento di impronta fallica al carattere espropriante del desiderio dell’Altro. Basti pensare alla teorizzazione del senso di colpa da parte di Melanie Klein: la capacità di preoccuparsi per l’altro funge da fattore di integrazione soggettiva rispetto alle disiecta membra della fase schizo-paranoide, segnando il passaggio dal corpo in frammenti all’oggetto intero, dalla relazione dissociata con gli oggetti parziali alla tolleranza verso l’ambivalenza.
O, ancora, si pensi alla profonda rielaborazione lacaniana della tematica del Nome-del-Padre, o, meglio, dei tanti Nomi-del-Padre: padre dell’esogamia, padre dell’esodo, padre della migrazione. La concettualizzazione lacaniana del padre in termini di significante e di metafora permette di sfuggire all’altalena metonimica delle identificazioni narcisistiche e al nomadismo fluttuante dell’identità tipico della postmodernità.
Perché la migrazione si faccia esodo trasformativo, è necessario che essa si annodi attorno a un’istanza capace di aprire lo spazio del desiderio e dell’alterità attorno alla mancanza e alla castrazione simbolica operata dalla Legge. Proprio perché non possiamo avere “tutto e subito” ci è possibile pensare un Altrove, sognare (del)l’Altro, consegnarsi al desiderio. Desiderare qualcosa ci sottrae alla pretesa di essere autosufficienti. C’è bisogno di un Altrove e di un Padre che ce lo racconti, senza pretendere di insegnarci la via. Come il Gulliver di Guccini,
parlava coi nipoti, che ascoltavano l’incanto
di spiagge e odori, di giganti e nani,
scienziati ed equipaggi e di cavalli saggi
riempiendo il cielo inglese di miraggi…
Ma Gulliver sa che «i desideri sono solo nostalgie / o malinconie di innumeri altre vite». Ecco perché il complesso odierno dei figli edipici deve farsi, secondo la lezione di Massimo Recalcati, complesso di Telemaco. Nell’eclissi del Padre si fa strada il tempo della nostalgia del tratto paterno. Di fronte alla rilettura della questione del Padre operata da Lacan nel Seminario XVII su Il rovescio della psiconalisi (1969-1970), il padre edipico-totemico-mosaico diventa il crocevia di un’operazione umanizzatrice-civilizzante a beneficio dei figli; un’azione che anteponga al carattere masturbatorio e chiuso del godimento quello vivificante e aperto del binomio Legge/desiderio.
La traduzione psico-politica di queste istanze teoriche chiama in causa le categorie deleuziane di territorializzazione/de-territorializzazione e di pensiero nomade. Si impone oggi la necessità di pensare una dimensione al contempo nomade, ossia connessa al Reale e alle dinamiche vitali, e “nostalgica”, cioè ancorata all’istanza simbolica e al suo carattere “umanizzante”.
Mostra commenti