Una fila di blocchi con il tetto in lamiera. Geometrici. Simmetrici. Uno spazio enorme. Visti dall’alto, gli allevamenti ripropongono minuziosamente la disposizione architettonica a cui ci hanno tristemente abituato luoghi come Sachsenhausen o Auschwitz. Niente da dire.
Cambia la scena. Una gabbia di metallo lucente. Una fortissima luce bianca, del neon più asettico. Dei maiali in mezzo, bianchi, perlacei, sembrano stranamente nudi, di una nudità che fa impressione. Se la nudità è legata all’esposizione e alla vulnerabilità, allora quei maiali, cosa generalmente ritenuta impossibile per un animale, sono nudi. Così freddamente esposti e ritratti nella loro carne abbondante, quella carne per la quale saranno uccisi. Inquadrati in questo modo, dall’alto, sembrano evocare sinistramente i pietosi e macabri ammassi di corpi denudati che compaiono in alcuni degli scatti tristemente noti delle torture di Abu Ghraib.
Questa la potenza visiva, indubbiamente notevole, che emerge già solo vedendo il trailer del film Dominion, la nuova opera che denuncia la violenza sugli animali di ogni specie e in ogni settore – soprattutto quello dell’allevamento ai fini alimentari – scritto, diretto e realizzato da Chris Delforce, dell’associazione australiana Aussie Farms. Online dal 9 luglio scorso, è stato tradotto e reso disponibile sul canale Vimeo da AgireOra ( canale: vimeo.com/agireora )
Il parallelismo che la corrente dell’antispecismo vede tra gli allevamenti intensivi e i lager nazisti non è nuovo, come nuove non sono le polemiche scatenate da questa immagine così forte. L’interpretazione più riuscita a riguardo ci sembra quella di Jacques Derrida, pensatore non a caso conteso tra chi vorrebbe attribuirgli un’adesione concettuale al paradigma antispecista e chi la nega fermamente. In L’animale che dunque sono, Derrida rileva un profondo mutamento nel rapporto, sempre problematico e immancabilmente violento, tra l’uomo e gli altri esseri viventi, esploso negli ultimi due secoli circa, con l’escalation della produzione capitalista, lo sfruttamento intensivo e l’allevamento industriale di vite, ai fini del commercio della carne principalmente, ma anche della ricerca e della sperimentazione (medica, genetica, estetica ecc.) e dei vezzi dell’abbigliamento. Un incremento agghiacciante, sia per i numeri che per le tecniche utilizzate, che porta alla “produzione senza precedenti dell’assoggettamento animale” (Derrida). Le conseguenze di tutto questo sono tali da indurre il filosofo franco-algerino a parlare di una vera e propria “guerra in corso”, anzi più precisamente di una “guerra alla pietà”, poiché nell’orgia dello sfruttamento e della produzione turbocapitalista non c’è spazio per la pietà, per le bestie come per gli uomini. In quest’ottica gli allevamenti industriali ci offrono una fotografia disperata e disperante di un mondo in cui la violenza capillare dei sistemi di produzione e di potere si moltiplica all’infinito in una miriade di circuiti impregnati allo stesso tempo di automatismo e crudeltà. Una situazione descritta bene da Derrida, quando, riprendendo il parallelismo con i lager, scrive:
“Non bisogna abusare né tralasciare frettolosamente la figura del genocidio. Perché a questo punto essa si complica, l’annientamento è certamente in atto ma tale annientamento sembra passare attraverso l’organizzazione e lo sfruttamento di una sopravvivenza artificiale, virtualmente interminabile, in condizioni che gli uomini del passato avrebbero giudicato mostruose, al di fuori di ogni supposta norma di vita degli animali che vengono così sterminati nella loro sopravvivenza o addirittura nella loro moltiplicazione. Come se, ad esempio, invece di gettare un popolo nei forni crematori o nelle camere a gas, dei medici o dei genetisti avessero deciso di organizzare, con l’inseminazione artificiale, una sovrapproduzione, una sovrappopolazione di ebrei, zingari e omosessuali che, sempre più numerosi e nutriti, venissero destinati, in un numero sempre crescente, allo stesso inferno, quello della sperimentazione genetica coatta, dello sterminio col gas o col fuoco. Negli stessi macelli”.
La cosa evidente in questo brano è che non ci troviamo solo a fare i conti con lo sfruttamento degli animali domestici ad opera dell’uomo (fenomeno che non a caso diverse branche dell’antispecismo legano alla nascita delle prime società stanziali – e, di conseguenza, della proprietà privata – e alla violenza del dominio e del possesso che ne consegue), ma a una catastrofe senza precedenti, non solo per dimensioni, ma anche per l’organizzazione e razionalità tecnica che muove questo sterminio. Gli animali uccisi in quantità “industriali” – dunque molto al di sopra di un presunto fabbisogno alimentare – vengono anche manipolati per sfruttare meglio ogni cosa che dal loro corpo possa dare profitto: la carne sempre più dopata; la fertilità, sempre più innaturalmente indotta; per non parlare delle sperimentazioni e delle manipolazioni genetiche per fini di dubbie ricerche mediche, se non direttamente aziendali, come quelle su saponi, cosmetici e trucchi testati sulla pelle di animali, metodo probabilmente più economico di altri. Milioni di esistenze sarebbero, così, non solo allevate, ma anche immunizzate, manipolate e utilizzate a piacimento dall’uomo e per puro scopo di profitto, come non si è mai verificato nel corso della storia del pianeta. Nella ferma e immotivata convinzione che siamo superiori e che “potere equivalga a diritto”, come viene bene messo in evidenza nel prologo iniziale del film.
Un simile scenario non può essere compreso eludendo il tema della tecnica moderna e del suo funzionamento nel sistema tecnico-economico-industriale, che già Arnold Gehlen tacciava di voracità e smoderatezza, tanto da invocare forme drastiche di ascesi. Ad uno scenario tanto catastrofico, però, sembra fare eco maggiormente e con più pertinenza la riflessione di Martin Heidegger in La questione della tecnica, dove il filosofo di Friburgo individua l’essenza della tecnica moderna “in quell’impianto di richiesta che provoca e costringe l’uomo a disvelare il reale come fondo per l’impiego (Gestell)”. Famoso, in questo caso, è diventato l’esempio che ha come protagonista il Reno: nell’ottica di una centrale elettrica, il grande fiume traboccante di storia, portatore di vita e fonte di spontanea e imperitura bellezza, è solo un materiale da “impiegare”. In questo utilizzo incondizionato e manipolazione infinita degli enti, la vita stessa diventa semplice materia e mezzo di produzione. Sbaglia chi pensa che questo discorso riguardi “solo” piante ed animali. Una volta innescato il meccanismo di sfruttamento su scala mondiale, nulla sfugge alla violenza dell’agire tecnico, neppure l’uomo.
Anche ammesso, però, che, chiudendo gli occhi di fronte all’evidenza, continuassimo a pensare che una simile catastrofe riguardi “solo” la vita animale, cosa intendiamo veramente quando pronunciamo quel “solo” non a caso così ossessivamente virgolettato e sottolineato nel testo? Quel “solo” è un tentativo di porre un confine esterno, ad una frontiera che, invece, è assolutamente interna all’uomo stesso. È il principio della macchina antropologica di Giorgio Agamben. Con questa definizione, il filosofo italiano intende, infatti, un particolare modo di strutturarsi di un pensiero basato sulla dicotomia uomo/animale, che considera quest’ultimo non esterno, ma interno all’uomo stesso. L’animalità, in questa prospettiva, sarà quindi individuata – e confinata – nel sostrato primordiale e biologico della corporeità, dalla quale l’umano si erge, differenziandosi, per le sue straordinarie doti morali e intellettive. Questo confine tracciato all’interno dell’essere umano stesso richiama la divisione mente/corpo, dove il corpo, appunto, rappresenterebbe la parte animale, rimasta incastrata nell’uomo, che deve essere gestita e arginata. Come Agamben fa notare, ovviamente, questa suddivisione interna all’umano non è mai innocente e neutra: storicamente si assiste all’appiattimento sul corpo e all’assimilazione con la natura animale delle categorie disprezzate e sottomesse, alle quali è in questo modo negato il riconoscimento di una piena umanità e, dunque, i diritti che ne conseguono: schiavi, stranieri, donne, ma anche minori, malati ecc. Bisogna stare attenti, dunque, quando si gira lo sguardo e si alzano le spalle di fronte alle sofferenze imposte alle specie animali, dal momento che, secondo il principio della macchina antropologica, c’è sempre il rischio di finire a nostra volta oltre il confine dell’umanità, ricacciati da qualche assurda decisione politica dalla parte considerata “animale” e, in conseguenza di ciò, privati di diritti. Una possibilità che non ci sembra debba portare necessariamente all’esempio del nazismo per essere compresa, dal momento che la stessa Judith Butler parla di “vite sacrificabili”, rese tali dal sistema economico vigente, in riferimento alle classi disagiate del pianeta.
Questo stesso rischio non può mai essere sottovalutato, insieme a quello della catastrofe ambientale imminente. Gli allevamenti intensivi, infatti, oltre a determinare condizioni di vita orribili, rappresentano una minaccia per l’ecosistema, per i loro costi in termini di risorse idriche, disboscamento e inquinamento dell’aria. Dominion è un film completo, lungo certo, ma ben riuscito, soprattutto nell’intento di descrivere uno dei tanti lati oscuri del nostro mondo, falsamente improntato sui miti della civiltà e del progresso.
Alla domanda posta da Jeremy Bentham, “Can they suffer?”, il senso comune e giurisdizioni avanzate hanno risposto e continuano a rispondere affermativamente. Di fronte alle logiche del profitto e dello sfruttamento selvaggio, ancora, invano.
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