Qualche tempo fa abbiamo assistito all’ennesima gogna mediatica sulla pelle di una persona. L’oggetto dello scandalo è stato, ancora una volta, un migrante o forse afrodiscendente, immortalato su un treno. La didascalia della foto divenuta immediatamente virale – 120mila like, 70mila condivisioni in un solo giorno, come riporta il sito valigiablu.it – sottolineava in tono inferocito che il ragazzo non aveva il biglietto. Elementi sufficienti, evidentemente, per legittimare un qualsiasi degno e onesto cittadino a gridare d’indignazione, fotografando una persona e rendendone pubblica l’immagine, come se si trattasse di una panchina rotta o un parcheggio abusivo. Risultato: giorni di polemiche e d’invettive, alle quali, ormai, siamo sin troppo abituati. Poco importa che alla fine tutta la storia si sia rivelata falsa. La stessa Trenitalia ha smentito con una nota ufficiale. La gogna mediatica era già propagata e lasciava dietro i suoi strascichi d’ignoranza, diffidenza, odio. Il vero problema non è neppure se la storia sia vera o inventata. È l’atteggiamento implicito che non ha portato nessuno a chiedersi se sia legittimo sindacare sulle singole azioni delle persone, solo perché si ipotizza che siano straniere. Una categoria di giudizio in più, rispetto a quelle universali che ha descritto il buon vecchio Kant: quella con l’aggravante razziale.
L’essere esposti al giudizio altrui è una forma di vulnerabilità, che noi donne, del resto, conosciamo assai bene: è il “come ti vesti?” accusatorio e indagatore di parenti, amici e colleghi, è il “com’era vestita” e il “chissà cosa ha combinato” dei commenti dopo l’ennesima notizia spettacolarizzata dai media, di un’aggressione, uno stupro o un omicidio. Sono quelle battute che ti si appiccicano addosso camminando per strada, quelle molestie verbali che ancora molti scherzando – ma non troppo –definiscono “complimenti” le volte che ti capita di sfogarti, o almeno di provare a farlo.
La vulnerabilità, secondo Judith Butler, è una dimensione che accomuna tutti i corpi, dunque, anche tutti gli esseri umani che in questi sono incarnati. Ci sono, però, sistemi economici e sociali che in qualche modo “gestiscono” intenzionalmente questa vulnerabilità comune, sbilanciandola e usandola come un’arma verso degli strati di popolazione a favore di altri. La disuguaglianza nella vulnerabilità, imposta dal sistema economico e da precise strategie politiche, genera quelle che la Butler definisce «vite precarie». Viene qui usato il termine “vite” in generale, perché la precarietà in questo caso non si riduce al mero aspetto lavorativo-economico, ma da questo prende le mosse per caratterizzare intere esistenze. Il precariato come dimensione esistenziale oltre che lavorativa porta ad un aumento della percezione della vulnerabilità, di esistenze esposte ai capricci del mercato come ai traumi dell’anima: alla sofferenza, alla depressione, all’autolesionismo. Ai diktat di situazioni sociali intollerabili, inoltre, si unisce, spesso, il disprezzo e l’ironia di chi, privilegiato, stigmatizza la povertà di mezzi e di possibilità come una colpa.
Insomma, possiamo dire che le vite precarie sono tali non solo perché più instabili economicamente, ma anche perché maggiormente esposte all’aggressione, alle ingiurie, alla vergogna, ai giudizi. A tutto questo si aggiunge una certa dose di disprezzo verso le categorie vulnerabili da parte dell’opinione maggioritaria, in un meccanismo che ritiene le minoranze in difetto pure dal punto di vista morale, perché considerate, di volta in volta, deboli, stupide, malate, criminali o, semplicemente, povere, in una cultura che connota implicitamente tutti questi attributi automaticamente come un difetto.
Ci sono gli intoccabili, quelli che anche quando vanno contro ogni punto di riferimento del comune sentire, generano uno scandalo di un tipo diverso: benigno e ammiccante, quasi invidioso: i potenti che vanno con le ragazzine; che fanno carte false per accattonare ancora più soldi di quanti ne hanno già sottratti impunemente; che per quanto drogati non vengono mai definiti tossici; per quanto perversi mai chiamati depravati; per quanto sporchi mai definiti ladri e sciacalli. La società a caste non è prerogativa degli Indù, la costruiscono anche il capitale e la corazza ipocrita e borghese della rispettabilità, concessa solo a chi ha soldi e potere, ovviamente. Del resto, sulla scorta di Marx e di un proverbio calabrese ripreso da Basaglia, “chi non ha, non è”, e che “la serva è ladra ma la signora cleptomane”, lo ha fatto notare anche Trilussa.
Società di intoccabili di classe più che di casta: da un lato, i colletti eternamente bianchi e le reputazioni immancabilmente linde, dall’altro, le categorie vessate: le donne, tutte, i migranti, i dissidenti, i poveri. Quelli che devono sempre giustificarsi e spiegarsi. Per una minigonna indossata; per ogni volta che lasciano soli i figli per tenersi uno straccio di lavoro; per uno spinello trovato in macchina; per ogni no detto allo stato delle cose, in fabbrica come in piazza; per ogni singolo gesto di esasperazione o disperazione.
Una guerra civile indotta che, in questo circo di vulnerabilità che si azzannano tra loro nell’arena sociale del giudizio ampliata dai media, vede ormai come protagonista – o antagonista indiscussa – l’alterità migrante, che in quanto tale non è semplicemente, razzialmente, odiata, ma usata anche come capro espiatorio. Alterità che rende motivo di scandalo e accanimento non solo i crimini commessi da singoli individui – che, come tali, non hanno nazionalità – ma anche le situazioni più banali: un ragazzo che forse non trova il biglietto sul treno; possedere uno smartphone; chiedere di poter usufruire del Wi-Fi, magari per poter parlare più facilmente con i propri cari; alzare la voce nella rabbia; desiderare almeno un piatto di riso, invece della solita pasta, nella mensa di quei Centri dai quali puoi uscire ma non te ne puoi andare…
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