Lo scandalo creatosi attorno a Facebook e al data mining di Cambridge Analytica ha scoperchiato le profondità della voragine informazionale che si nasconde sotto l’uso quotidiano e stolido dei social network e delle reti di dati. Il “saccheggio” di informazioni personali e aggregate (i “Big Data”) tratte dalla navigazione degli utenti attraverso dispositivi fissi e mobili, dalle app alle tessere elettroniche, serve alla profilazione dei gusti e delle tendenze dei consumatori. Parlando di consumers dobbiamo intendere il termine in senso lato: si può trattare di acquirenti potenziali di un prodotto, di pedine da spostare sul mercato del lavoro, di elettori da influenzare surrettiziamente.
Come spiega Arturo Di Corinto su il manifesto, «la società Data X, di base a New York, ha creato un add-on, un’estensione per Mozilla Firefox o [Google] Chrome, […] Data Selfie. Scaricata e installata sul nostro computer ci permette di vedere quanto tempo passiamo a leggere i post dei nostri amici, quanti like produciamo, quanti link clicchiamo e che cosa digitiamo o cancelliamo dai post di Facebook». In modo non dissimile, Cambridge Analityca avrebbe estrapolato, stando al rapporto del suo impiegato Michael Phillips, l’orientamento politico di milioni di elettori negli Stati Uniti e nel Regno Unito, attraverso il monitoraggio delle loro interazioni virtuali.
Come si dice, “non esistono pranzi gratis”. Il consumer di servizi gratuiti è in realtà un prosumer: sta lavorando anche mentre crede di oziare sul cellulare, e la forza lavoro che vende è la propria identità online o, meglio, l’io che vuole far credere di essere, l’immagine che proietta sullo schermo/specchio.
La mia “produzione desiderante” — di foto, video, scritti — è al servizio dei Big Data, che, attraverso la ragnatela dell’immaginario diffuso, allo stesso tempo apprendono le mie tendenze e mi insegnano a desiderare (è questa la tesi di Slavoj Žižek), sospingendomi nella direzione che più aggrada al Capitale. È in sintesi un “capitalismo affettivo “, perché l’economia in gioco è quella delle passioni. Passioni tristi, direbbero Miguel Benasayag e Gérard Schmit. Oggi si vendono esperienze, e ogni esperienza è documentabile e documentata (di qui la pratica dei selfie), replicabile e, last but not least, monetizzabile.
La passione triste del prosumer (consumatore e produttore di dati) è quella di chi lavora inconsapevolmente, ogni volta che si connette alla matrice. Marco Bascetta, in Al mercato delle illusioni. Lo sfruttamento del lavoro gratuito (Manifestolibri, 2016), evidenzia come lo sfruttamento contemporaneo sia pervasivo e onnipresente. Il lavoro gratuito inconsapevole, descritto nella letteratura post-operaista a partire dagli anni ‘70, concerne le forme di produzione potenziale afferenti a una serie di attività tendenzialmente non riconosciute come lavorative stricto sensu. Non so di stare lavorando, mentre intervengo su un social o fornisco i dati a un provider, eppure dalla mia cooperazione alla rete sociale soggetti terzi estraggono valore economico. Proprio quello che è avvenuto con l’affaire Cambridge Analityca. Non siamo stati solo derubati della privacy, non siamo stati solo cooptati politicamente, ma anche sfruttati economicamente in quanto fornitori di una miniera di dati: l’essenza del data mining è l’alienazione ai tempi dell’iperconnettività.
Probabilmente, tra qualche tempo, la trasmissione alle macchine, alle matrici interconnesse, di informazioni sulle nostre passioni sarà l’unica forma di lavoro rimasta. Distopia? Uno studio di qualche anno fa dell’università di Oxford sul rapporto fra automazione e indici occupazionali prevede che nel giro di vent’anni la metà dei lavori attualmente in essere spariranno: inveramento dell’utopia della fine del lavoro e inizio dell’era dell’otium creativo, in cui agli schiavi si sostituiscono i robot (termine che nell’etimo slavo ecclesiastico rimanda a rabota, “servitù”)? Via i lavoratori, il mondo è dei consumatori.
Appena un anno fa Mark Zuckerberg inneggiava all’avvento di una nuova epoca di diritti, a una globalizzazione sostenibile fondata sulle reti sociali e sul pieno dispiegamento dell’economia digitale. Via i cittadini, spazio agli utenti. Ma il “mondo nuovo” viene invocato anche all’interno di un’altra narrazione: quella che vede nella piena automazione e digitalizzazione dell’esistenza il sorgere del “sol dell’avvenir”: così Nick Srnicek e Alex Williams in Inventare il futuro. Per un mondo senza lavoro, uscito in questi giorni per l’editore romano Nero. In copertina campeggiano le scritte: Pretendi la piena automazione; Pretendi il reddito universale; Pretendi il futuro.
Il reddito di base o reddito di cittadinanza universale, il basic income, si salda così alla previsione della fine del lavoro e alla prospettiva accelerazionista, per cui una sinistra post-capitalista dovrebbe abbracciare la rivoluzione tecnologica in vista dell’affrancamento dal lavoro, mettendo al bando le nostalgie di destra per i protezionismi, ma anche quelle di sinistra per l’economia keynesiana. I già citati Srnicek e Williams sono appunto autori di un Manifesto per una politica accelerazionista: «Gli accelerazionisti intendono liberare le forze produttive latenti. In questo progetto, la piattaforma materiale del neoliberismo non ha bisogno di essere distrutta. Ha bisogno di essere riconvertita verso obiettivi comuni. L’infrastruttura esistente non è una fase del capitalismo da distruggere, ma un trampolino di lancio verso il post-capitalismo».
È qui che il lascito di Gilles Deleuze e Félix Guattari, il dispositivo delle macchine desideranti, può essere a mio avviso ripreso evitando i rischi di una sua distorsione in senso neo-liberista. Come ho scritto in L’inconscio deleuziano: capitalismo e rivoluzione, «il carattere rivoluzionario delle macchine desideranti, negli auspici di Deleuze e Guattari, avrebbe dovuto condurre alla rivoluzione molecolare, piuttosto che agli esiti imprevedibili del “turbocapitalismo”», anche se «le premesse delle modalità postmoderne di produzione e consumo sono indubbiamente tutte implicite nell’ontologia deleuziana».
Certo, esperienze di condivisione della governance d’impresa come Holacracy, esempio di struttura organizzativa non-verticistica, lasciano ben sperare nella possibilità che la rivoluzione digitale sprigioni il suo “anarchismo” originario, il suo DNA open source, liberandoci al contempo dal lavoro, o perlomeno da un lavoro alienante, gerarchizzato e non-creativo. Ciò non significa, ci avvisa Srnicek, che non si debba prestare attenzione ai possibili esiti inquietanti del capitalismo digitale prima dell’auspicato collasso indotto dalla sua stessa forza propulsiva. Ancora Srnicek e Williams: «E quel che è peggio, come già Deleuze e Guattari rilevarono, è che fin dal principio quello che la velocità capitalista deterritorializza con una mano, riterritorializza con l’altra. Il progresso viene costretto all’interno del quadro del plusvalore, dell’esercito di riserva del lavoro e di un capitale liberamente fluttuante». Parafrasando Guccini: Deleuze non ci ha insegnato ancora niente.
Voglio infine evidenziare come il reddito di cittadinanza si colleghi strettamente al tema da cui siamo partiti, quello della quotidiana produzione di dati da parte di ciascuno di noi. Lo ha esplicitato perfettamente Emanuele Braga su EuroNomade, affermando che ci attende una rivoluzione culturale: il reddito di base deve «essere un riconoscimento di tutta quella produzione e riproduzione sociale che costituisce la ricchezza relazionale in cui siamo immersi. […] Basic income significa riconoscere tutto il tempo che utilizziamo per creare relazioni, per tessere i processi di solidarietà, la passione che nasce dalla libertà di impiegare il proprio tempo in processi espressivi e organizzativi, per prenderci cura delle nostre vite in svariate forme».
Siamo già tutti macchine desideranti.
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