Eudemonologia [eu-de-mo-no-lo-gì-a], s. f. L’eudemonologia non è altro che la trattazione circa gli oggetti e le ragioni della felicità.
Al giorno d’oggi la conoscenza di questo termine, e la sua divulgazione, è abbastanza limitata, addirittura c’è chi lo andrebbe a definire come un neologismo, o paradossalmente come un vocabolo obsoleto, caduto ormai in disuso e soprattutto non alla portata di tutti.
Effettivamente la parola “eudemonologia” non è un’invenzione dei nostri giorni, anzi! Questo termine non è altro che la mescolanza di due vocaboli greci, εὐδαιμονία (felicità) e λόγος (discorso), alla fine il significato di questa parola si ridurrebbe alla mera definizione di un discorso circa la felicità, ma l’eudemonologia abbraccia un bagaglio di significati ben più spaziosi, questo semplicissimo termine pone l’uomo davanti all’interrogativo che racchiude l’essenza della vita, lo mette di fronte alla domanda alla quale per millenni si è cercato di dare una risposta che sapesse soddisfare tutti, ma che, ahimè, non è stata ancora trovata.
Sono tantissime le menti che si sono interrogate sulla base di questo quesito, ognuno di loro dando spiegazioni e motivazioni diverse, interpretando a modo proprio questa effimera felicità che ognuno di noi cerca di sfiorare, ma che nessuno è mai riuscito ad abbracciare.
Nel proporvi una raccolta di risposte sul “che cos’è la felicità?”, partirei da un poeta forse meno conosciuto, soprattutto dalle nuove generazioni.
Eccentrico, puntiglioso ed eclettico, Carlo Alberto Salustri interpreta la felicità in maniera abbastanza ambigua e forse sempliciotta, ma carica di un significato che prescinde dalle misere parole adoperate.
C’è un’ape che se posa
Su un bottone de rosa:
lo succhia e se ne va…
Tutto sommato, la felicità
È una piccola cosa.
Una poesiola elementare, quasi infantile, la definirebbe una qualsiasi persona alla prima lettura. Termini semplici, espressioni essenziali, la tipica filastrocca da far imparare ad un bambino della scuola primaria; ma, come ho detto in precedenza, bisogna prescindere da questa base sintattica e linguistica basilare, mi verrebbe da pensare al celebre detto popolaresco secondo cui un libro non vada giudicato dalla copertina, in questo caso il cuore del libro è racchiuso nella metafora continua cucita addosso a questa poesia; la felicità, come spiega il cosiddetto “poeta de Roma”, non è altro che la voglia (e la forza) di accontentarsi di ciò che la vita costantemente ci regala, di ogni inezia, di ogni piccolo pezzo di vita che noi, perennemente insoddisfatti, tendiamo a non apprezzare in tutta la sua bellezza. La felicità per il caro Trilussa è il ricongiungimento di tanti piccoli tasselli che la vita, giorno dopo giorno, ci offre, tasselli che nonostante siano piccoli hanno il diritto di essere goduti.
Tralasciando la voce del volgo, in questo caso incarnata da Trilussa, prenderei in considerazione un autore un po’ più noto, spesso preso di mira dalle nuove generazioni, additato come il perenne infelice, come il “passero solitario”… io lo definirei con un’espressione diversa, preferisco piuttosto chiamarlo “il giovane favoloso”, come da titolo dell’omonimo film a lui dedicato.
A titolo informativo la cosa che più mi preme fare è quella di smentire il falso vociferare circa l’idea di un autore estremamente pessimistico, di un autore che la felicità non sa neanche dove stia di casa, di un autore che non riesce a vedere uno spiraglio di luce nel buio pesto della vita; siamo stati abituati per decenni ad etichettare Leopardi come il corvo nero della letteratura italiana, non notando che dietro quella copertina polverosa si celava un animo puro e sacrificato per l’eterna felicità.
A questo punto l’unione delle parole “Leopardi” e “felicità” agli occhi di tutti apparirebbe quasi come un ossimoro, come due parole che dicono l’una dell’altra un concetto opposto, ma solo perché la nostra mente non è mai riuscita a cogliere il vero senso dell’estro leopardiano.
Come pochi sanno, Leopardi credeva nella felicità e la paragonava ad una bolla di sapone, bellissima, trasparente, ma delicatissima. È dunque nella nostra natura cercare disperatamente di acchiappare questa meravigliosa felicità, ma al tempo stesso finire per distruggerla. “Chi troppo vuole, nulla stringe”, e in questo caso nessun detto sembra essere più calzante di questo.
Per concludere questo breve excursus su questo tema che scandisce giornalmente la vita di noi esseri umani, citerei un passo tratto da un monologo di Benigni:
“[La felicità] Cercatela, tutti i giorni, continuamente. Chiunque mi ascolta ora si metta in cerca della felicità. Ora, in questo momento stesso, perché è lì. Ce l’avete. Ce l’abbiamo. Perché l’hanno data a tutti noi. Ce l’hanno data in dono quando eravamo piccoli. Ce l’hanno data in regalo, in dote. Ed era un regalo così bello che l’abbiamo nascosto come fanno i cani l’osso, che lo nascondono. E molti di noi lo fanno così bene che non si ricordano dove l’hanno messo. Ma ce l’abbiamo, ce l’avete. Guardate in tutti i ripostigli, gli scaffali, gli scomparti della vostra anima. Buttate tutto all’aria. I cassetti, i comodini che c’avete dentro. Vedrete che esce fuori. C’è la felicità. […] E anche se lei si dimentica di noi, non ci dobbiamo mai dimenticare di lei. […] Non bisogna mai aver paura di morire ma di non cominciare mai a vivere davvero.”
La felicità esiste, c’è, è presente in noi in ogni sua sembianza… è che presi dai mille impegni che la vita al giorno d’oggi c’impone finiamo per tralasciarla, per metterla in un angolo, quasi in castigo, per poi additarla quando non la vediamo più comparire. È una pecca di tutti noi. Bisogna curarla, coltivarla, sostenerla e mai trascurarla, altrimenti non ci potremo più lamentare quando, giocando a nascondino, non sapremo più dove trovarla.
Articolo di Eleonora Lombardo, studentessa universitaria
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