The Lobster, film del 2015 di Yorgos Lanthimos, propone quella che potremmo definire una distopia del desiderio.
La storia è ambientata in un futuro prossimo, in cui una sorta di regime governamentale regola la vita di coppia e la sessualità. Gli individui single, infatti, vengono condotti in un hotel con l’obbligo di riuscire a trovare un partner tra gli altri ospiti entro quarantacinque giorni. Diversamente, verranno trasformati in un animale a loro scelta. David, il protagonista maschile della storia, sceglie, in maniera abbastanza peculiare, di essere, eventualmente, trasformato in un’aragosta.
A questo regime di “accoppiamento” dispotico che mette al bando la singletudine, fa da contraltare il regime specularmente opposto del bosco che ospita la tribù dei solitari, che, al contrario, vieta i rapporti di coppia. È nel bosco che David, riuscito a fuggire dall’hotel, incontra una donna affetta come lui da problemi di vista e finisce per innamorarsene.
Lo scenario inquietante della pellicola permette sicuramente una lettura su più livelli. Probabilmente, il livello più basico, incoraggiato dal divenire-animale dei personaggi, è quello “etologico”: la logica ordinata dell’alveare (l’albergo) contro quella caotica del bosco (il branco).
Ma è sul piano psicoanalitico che il film propone la chiave di lettura, forse, più interessante. Volendo costruire una dicotomia, l’hotel è in qualche modo la trasposizione di un approccio ossessivo al desiderio sessuale. Vediamo all’opera, cioè, un tentativo di schematizzare e mortificare l’imprevedibilità ingovernabile dell’incontro amoroso, confinandola in un copione rigido, reso plasticamente dalla rigidità dei discorsi dei due ragazzi zoppi. Il potere incontrollabile della pulsione, tratto caratterizzante dell’essere umano dell’uomo e della donna, viene condannato e fatto passare per l’opposto, per un tratto disumanizzante o animalizzante. Questa confusione tra pulsione e istinto, insieme all’ignoramento del tratto creativo dell’istinto, viene plasticamente resa dalla forma che assume la punizione per i single “impenitenti”: chi coltiva la libertà del proprio desiderio e non vuole essere irreggimentato nella scelta forzosa di un’unione di coppia purchessia, è trasformato in un animale.
La dittatura del desiderio, questo “fascismo dell’amore e della fantasia”, per riprendere il titolo di un romanzo di Ryū Murakami, arriva a rigettare persino la possibilità della masturbazione, come forma di fuga erotica non sottoposta al controllo ossessivo della società.
L’amore come ultima forma di espressione rivoluzionaria, sembra dirci Lanthimos, viene braccata spietatamente dal sistema repressivo dell’hotel. La forzatura dentro i canoni di una sessualità ordinaria, quella che alcuni lettori poco accorti di Freud farebbero coincidere con la sessualità genitale e con un certo residuo di familismo, diventa così l’arma finale attraverso cui la società tardo-capitalista assoggetta il desiderio. Siamo davanti a qualcosa di simile a ciò che Slavoj Žižek chiama “divieto di non godere” (Žižek 2009): l’imposizione del godimento, ovviamente, ha per conseguenza l’impossibilità di desiderare e la frigidità dei corpi e del cuore.
Durante la visione, si potrebbe essere, in un primo momento, tentati di credere che il potenziale rivoluzionario dell’amore trovi invece libera espressione nel bosco. Psicanaliticamente, si può identificare il bosco come il luogo dell’isteria, contrapposta, appunto, all’ossessione ospitata nell’albergo e promossa dal modello sociale dominante. E, in effetti, il ruolo dell’isteria, in psicoanalisi, è quello di mettere sotto scacco il padrone, di scalzare le sue sicurezze e rimettere in moto il desiderio. Rinunciare alla vita ordinata e “perbenista” per inseguire l’amore, mettere a rischio la vita per il desiderio. Pasolinianamente, ci si può chiedere: “Agli uomini interessa qualcosa di più della vita?”. Sì, nel momento in cui vanno in cerca di quel qualcosa in loro che è più di loro stessi. Il desiderio, in questo senso, è eccedenza rispetto alla vita, è ciò che nella vita è più della vita.
Ma il tratto isterico non riesce a risolvere tutta la questione, finché rimane ricerca incessante e senza meta, che rimanda infinitamente il godimento e il piacere. È questa impasse dell’amore che ha luogo nel bosco, dove viene messo al bando il “flirt”, dove viene temuto e sanzionato l’incontro dei corpi (il “bacio rosso” e il “rapporto rosso”). La logica dell’isteria espone sempre al rischio di separarsi dal desiderio dell’Altro di «escludersi, rifiutarsi, porsi come un soggetto senza alloggio alcuno nel desiderio dell’Altro» (Recalcati 2016, p. 301). Un soggetto senza posto nel campo del desiderio – per così dire, smarrito nel bosco.
Nel corso del film, la tribù dei solitari attacca l’hotel dell’accoppiamento mandando in pezzi la rigidità di quel mondo artificiale. La fine era del resto già scritta nelle premesse. L’impresa degli occupanti dell’hotel è molto più disperata di quella dei ribelli del bosco. È più difficile, alla lunga impossibile, fingere di provare sentimenti che non si hanno, piuttosto che fingere di non provare sentimenti che si hanno: la recita dei solitari funziona meglio di quella degli “accoppiati”.
Il vero momento emancipatorio del film viene, manco a dirlo, dall’amore come massima forma di trasgressione. Un amore imbevuto di un desiderio che non cede, come quello della ragazza dai capelli biondi, che, come ultimo gesto desiderante da umana prima della trasformazione in un pony, sceglie di vedere Stand by me, film non a caso nostalgico come il desiderio stesso. O come quello dei due protagonisti, nella scena in cui, sul divano, dovendo fingere di fronte ai loro ospiti di essere impegnati in un rapporto matrimoniale, si concedono delle appassionate effusioni amorose. Quella recita è in realtà il momento in cui i due fingono di fingere, rivelando la verità dissimulata del sentimento. Un nascondimento reso necessario dalle leggi ferree del bosco, che spinge David e la donna miope a inventarsi un codice, che simbolizza l’amore e allevia la forzosa separazione.
Non a caso, la scelta dell’aragosta da parte del protagonista simbolizza, forse, non tanto una vita che dura a lungo e si riproduce, quanto l’idea di amore come durata, come fedeltà a una promessa. Neanche l’accecamento della donna miope da parte della leader dei solitari pone fine alla ricerca di intimità della coppia ribelle, fino al tentativo estremo di David, lasciato in sospeso dalla narrazione, di emulare la condizione dell’amata, accecandosi a sua volta.
Il buio come rifugio, perché alla pretesa di controllo dei due clan, quello dell’hotel e quello del bosco, forse può opporsi solo il luogo dell’invisibile.
Bibliografia
- Recalcati, Jacques Lacan. La clinica psicoanalitica: struttura e soggetto, Raffaello Cortina, Milano 2016
- Žižek, Leggere Lacan. Guida perversa al vivere contemporaneo [2006], Bollati Boringhieri, Torino 2009.
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