«Il dolore dei carcerati è un problema politico
ed è un problema civile oltre che politico.
L’essere colpevoli e condannati a una pena non li cambia da persone a meri servi di una realtà degradata.
I detenuti rimangono cittadini e prima che cittadini rimangono uomini.
E hanno l’esigenza di essere rispettati nella loro umanità»
Aldo Masullo
Risulta alquanto singolare e forse un pizzico simbolico iniziare questo nostro viaggio proprio oggi: oggi 15 marzo 2018 mi appresto a scrivere questo articolo ed esattamente 280 anni fa nasceva a Milano Cesare Beccaria. Il padre del diritto italiano.
Mai momento fu più (in?)felice per cominciare questo discorso. Viviamo oggi tempi bui, tempi grigi, tempi dominati dall’indifferenza quando non dall’odio. Credo sia un “atto dovuto” (per continuare ad utilizzare una terminologia giuridicamente corretta) quanto meno fare un po’ di luce e chiarezza su una “semplice” parola oggi troppo spesso invocata e desiderata: il carcere.
Desiderata perché nella vulgata si desidera e si invoca il carcere per chiunque non rispetti regole e norme non solo (e non solo più) giuridiche e certe (magari!), ma troppo spesso anche, e forse solo, morali. Si invoca il carcere per la cacca del cane sul marciapiede, per un divieto di sosta su spazi per disabili, per aver gettato la plastica inavvertitamente nell’umido… Forse ai più non è chiaro cosa sia il carcere. Ai più. A “noi”, magari non è chiaro da dove arrivi questa voglia di carcere, di punizione, di giudizio immediato e spesso di “pancia” che può colpire chiunque, sia nell’immaginario che, purtroppo, come vedremo, anche nella realtà.
Mi sembra utile partire dall’etimologia delle parole “carcere” e “prigione”: la prima deriva dal latino “carcer-eris” che anticamente stava ad indicare il recinto, o, più propriamente, le sbarre da cui uscivano forsennatamente i carri per le corse in età classica, mentre il secondo da “prehensio”, una sorta di “prendere”, anche in maniera violenta.
Già dall’etimo si riscontra il carattere dispotico e aggressivo del termine, sia in un uso che nell’altro. Ed è proprio nell’antichità, greca ma soprattutto romana, che il carcere inteso come “luogo” (o meglio “non – luogo”) inizia a farsi strada, anche se non aveva del tutto l’idea di misura punitiva, in quanto esso serviva più “ad continendos homines, non ad puniendos”, tant’è che i rei venivano posti semplicemente in un vestibolo, anche con aperture da concedere addirittura contatti con l’esterno, con parenti e amici. Il diritto romano ovviamente prevedeva fustigazioni, torture, mutilazioni e ovviamente la pena capitale, ma anche semplici pene pecuniarie per reati privati (un risarcimento e la si chiudeva lì): il carcere era previsto quasi esclusivamente in via cautelativa, preventiva (pratica di cui si fa abuso anche oggi, a 2000 anni di distanza!) in attesa della sentenza.
Per quanto riguarda la pena capitale è giusto dire anche che nell’antica Roma erano considerati reati gravissimi, sanzionabili appunto con la massima pena, non solo il tradimento della patria, l’uccidere, lo stuprare, il dare falsa testimonianza, rubare al padrone, ingannare un cliente e così via, ma pure vere e proprie sciocchezze come lo spostare il confine di un campo o il rubare il bestiame (abigeato) altrui. Le cose iniziano a cambiare e in peggio dal II-III sec. d.C. in poi, quando il limes dell’impero inizia a vacillare sotto i colpi delle incursioni barbariche.
La parte europea centro-orientale dell’Impero viene costantemente invasa negli anni da popolazioni seminomadi: Ostrogoti, Vandali, Burgundi e chi più ne ha più ne metta entrano spesso in contatto con le popolazioni romane e se talvolta, contrariamente a quanto si studia e si pensa, avviene un “incontro” fra culture diverse, in campo prettamente giuridico ciò porta una vera e propria involuzione.
Non solo è in essere uno scontro tra diversi modi di intendere la teoria del diritto (da una parte la consuetudine, dall’altra la fermezza del codex), ma anche una differenza abissale nella pratica: se i Romani avevano fondato il loro sistema, perfezionato lungo i secoli, attraverso la facile conseguenza “pena pubblica inflitta dallo Stato irrogata tramite processo”, ora con l’avvento delle consuetudini franche o barbariche in genere tornò a prevalere la concezione della pena privata che, detto in soldoni, non era molto distante dal nostro concetto odierno di “vendetta”.
Essa dava il via alla cosiddetta “faida”, termine che ancora oggi, nel gergo giornalistico e di inchieste “savianesche” trova ancora agio e uso. La faida era l’esaltazione dell’esercizio privato del diritto o della sua famiglia o del suo clan (anche questo, termine oggi stra-abusato) e solo raramente si addiveniva ad un giudizio finale da parte dello “Stato”, attraverso i suoi rappresentanti.
Va da sé che nella stragrande maggioranza dei casi le dispute erano appannaggio del più forte o del più potente, anche attraverso l’uso delle armi (ciò verrà edulcorato da Federico II prima e terminerà solo con la dieta di Worms del 1495 grazie all’imperatore Massimiliano I, anche se talvolta l’intervento del clero limitava l’uso delle armi durante le faide vietandole in alcuni giorni della settimana per “non offendere Dio”). La prima parte del nostro viaggio termina qui; nel prossimo articolo vedremo come cambia il diritto e/o la pena, ma anche tutto l’iter processuale dalla fine del Basso Medioevo sino alla piena Età Moderna.
A cura di Claudio Marengo – Iscritto al Partito Radicale Nonviolento Transnazionale e Transpartito
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