Vi presentiamo la quinta parte del viaggio nella storia penale e carceraria italiana. La prima parte, sulla concezione della pena in epoca romana e durante le invasioni barbariche, è disponibile cliccando su questo link. La seconda parte, incentrata sull’età medievale, è consultabile qui. La terza parte, sugli albori dell’età moderna, si trova qui. La quarta parte sull’età dei lumi è disponibile qui.
Da Beccaria in avanti, facciamo un salto e arriviamo a noi e al 1861. Raggiunta l’Unità si avvertì in Italia la necessità di raccogliere e uniformare, in maniera organica e sistematica, tutta la legislazione vigente in ogni settore del diritto e anche per il diritto penitenziario fu avvertita la stessa esigenza. Dopo l’estensione del codice penale sardo a tutte le province italiane, il Governo nell’arco di due anni emanò cinque nuovi regolamenti relativi alle diverse tipologie di stabilimenti carcerari. Nel 1889 venne emanato il codice penale Zanardelli, entrato in vigore il 1° gennaio 1890, che sostituì il codice penale sardo emanato nel 1859 ed esteso a tutte le province italiane, ad eccezione della Toscana, dopo l’Unità.
Al 1889 risale anche la prima legge relativa all’edilizia penitenziaria e agli stanziamenti di bilancio per farvi fronte (legge 14 luglio 1889, n. 6165). Gli istituti realizzati in questo periodo si ispirarono al modello indicato da Crispi, portando alla formazione di una nuova tipologia carceraria caratterizzata dal sistema cellulare. Nel 1890 le dimensioni delle celle venivano fissate dal Consiglio Superiore di Sanità in m. 2,10 x 4 x h 3,30, mentre le dimensioni dei “cubicoli” erano stabilite in m. 1,40 x 2,40 x h 3,30. Solo qualche tempo dopo, con la riforma del 1932 ed a seguito delle vivaci campagne avviate sin dal 1921 contro la segregazione cellulare, sarà introdotto il sistema dei “camerotti”, che consentirà la convivenza da tre a sette detenuti in unità di dimensioni più ampie (25 mq. per posto letto).
La riforma penitenziaria del 1889 ebbe il merito di porsi il problema della disponibilità delle strutture. A tal fine si prevedeva di reperire i proventi necessari per l’edilizia penitenziaria dalle lavorazioni carcerarie, dalla vendita di alcuni immobili e da economie realizzate su altri capitoli di bilancio dell’amministrazione carceraria che, all’epoca, gestiva direttamente la sua edilizia. La legge del 1889 sull’edilizia penitenziaria, unitamente al codice penale Zanardelli, costituì il presupposto per l’emanazione del Regolamento generale degli Stabilimenti carcerari e dei riformatori giudiziari avvenuta con regio decreto 1° febbraio 1891, n. 260. Venne abolita la pena di morte (sostituita con l’ergastolo) ma restarono severissime le pene per i reati contro la proprietà. Il nuovo regolamento, costituito da ben 891 articoli, fu additato come un modello nel suo genere, ma il grave stato di decadenza degli stabilimenti carcerari impedì non solo l’attuazione ma anche la sperimentazione del regolamento.
Nel periodo “giolittiano” (caratterizzato da governi con indirizzi politici liberali), il regolamento del 1891 subì alcune importanti modifiche tendenti a mitigare le condizioni disumane dei detenuti. Venne soppresso l’uso della catena al piede per i condannati ai lavori forzati e furono introdotte modifiche al rigido sistema delle sanzioni disciplinari, eliminando le disumane punizioni della camicia di forza, dei ferri e della cella oscura. I ferri saranno di fatto aboliti soltanto nel 1902, con l’articolo unico del regio decreto n. 337 del 2 agosto. Il successivo regio decreto 14 novembre 1903, n. 48 sancì l’abolizione della camicia di forza, dei ferri e della cella oscura, provvedimento dovuto più al fallimento di questi mezzi come reale deterrente per comportamenti indisciplinati che per la volontà d’umanizzare le drammatiche condizioni di vita in cui versava la popolazione detenuta. Il terzo filone su cui si indirizza l’attività riformatrice nei primi anni del Novecento riguarda l’impiego dei condannati in lavori di bonifica di terreni incolti o malarici.
Poi paradossalmente nulla più: mentre il mondo si autodistruggeva con la prima guerra mondiale che mobilitava soldati, industrie, donne, uomini, apparati dello stato, insomma chiunque, il mondo penitenziario viveva un inaspettato immobilismo. Tranne un regio decreto sugli agenti di custodia (peggiorativo) non si segnalano altre iniziative. Tutto tacerà sino ai primi anni Venti del Novecento, quando inaspettatamente qualcosina (qualcosina!) si muove. Il principio che i detenuti dovevano essere oggetto di cura più che di repressione, di rieducazione più che di punizione, trovò una applicazione pratica nel 1921 e 1922 in una serie di circolari innovatrici che determinarono alcuni miglioramenti nel trattamento dei detenuti. La maggior parte delle innovazioni introdotte dai diversi provvedimenti ministeriali diverranno parte integrante del regolamento carcerario con la riforma introdotta dal regio decreto 19 febbraio 1922, n. 393. Le principali modifiche riguardarono: il lavoro svolto in carcere dai detenuti; i colloqui; la corrispondenza; la disciplina delle case di rigore. Questi timidi tentativi di riforma furono in sé e per sé modesti, ma eccezionali se rapportati al tradizionale immobilismo del mondo penitenziario. Con l’avvento del fascismo i timidi tentativi di riforma del 1920 subirono un brusco arresto e si ripiombò nell’inerzia che aveva caratterizzato il settore. Non si sperimentarono più riforme, ma ci si limitò a nominare commissioni di studio che portarono avanti i lavori con esasperante lentezza.
Con regio decreto 5 aprile 1928, n. 828, la Direzione generale delle carceri e dei riformatori assunse la nuova denominazione di Direzione generale per gli istituti di prevenzione e di pena. Nel 1930 vennero approvati il nuovo codice penale “Codice Rocco” e nel 1931 il nuovo codice di procedura penale. Riprenderemo da qui il nostro viaggio.
A cura di Claudio Marengo – Iscritto al Partito Radicale Nonviolento Transnazionale e Transpartito
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