“Dalla pena di morte alla morte per pena”: l’età moderna

A grandi balzi entriamo in piena età moderna.

Vi presentiamo la terza parte del viaggio nella storia penale e carceraria italiana. La prima parte, sulla concezione della pena in epoca romana e durante le invasioni barbariche, è disponibile cliccando su questo link. La seconda parte, incentrata sull’età medievale, è consultabile qui.

A grandi balzi entriamo in piena età moderna. Precisamente nel 1557, in Inghilterra: nasce nel palazzo di Bridewell (“gentilmente” messo a disposizione dal sovrano, ma che attraverso il lavoro degli internati doveva essere in grado di assicurarsi il proprio finanziamento, senza profitto individuale né dei reggenti, che ricoprivano un incarico onorifico, né dei guardiani, che avevano un salario) la prima house of correction o workhouse. Cos’è? Un luogo (dove per la prima volta vengono divisi i detenuti anche per genere e/o per mansione: gli uomini a polverizzare legno, le donne dedicate alla filatura, con spazi di vita e lavoro separati, al tempo una clamorosa novità) al cui interno vengono condotti ladri, prostitute, ragazzi abbandonati, poveri ma soprattutto vagabondi con l’obbligo di “riformarsi” attraverso il lavoro e la disciplina.

Lo scopo fondamentale di tali istituzioni era di rendere socialmente utile una forza lavoro ribelle: si sperava che, attraverso l’addestramento forzato dentro l’istituzione, i detenuti avrebbero assunto costumi industriosi e appreso, allo stesso tempo, un’istruzione professionale, in modo che, una volta liberi, sarebbero andati volontariamente ad ingrossare il mercato, sempre famelico di braccia. Si venne però a creare addirittura una stortura incredibile: i lavoratori più preziosi, il cui mantenimento e addestramento aveva comportato costi considerevoli, dovevano essere trattenuti il più a lungo possibile, così che il periodo di detenzione veniva arbitrariamente fissato dagli amministratori in tutti i casi.

Cosa vuol dire? Semplice: che se il condannato “X” a 3 mesi si dimostrava un provetto artigiano, veniva trattenuto oltre il tempo stabilito! Piccola nota: perché soprattutto i vagabondi? A partire dalla fine del XV secolo si assiste allo sgretolamento socio-politico-economico, ma anche ideologico e di costume tout court, del mondo feudale e lo scioglimento dei seguiti feudali; a quel tempo, la dissoluzione dei monasteri, la recinzione di terre per l’allevamento del bestiame e i mutamenti nei metodi di coltivazione ebbero enorme importanza nella “grande fuga” dei contadini dalla terre verso le città.

Città la cui nascente opera manifatturiera non era in grado di assorbire gli uomini scacciati dalla terra: si trasformarono così, in massa e quasi d’emblée, in mendicanti, briganti e, appunto, vagabondi. Alla fine del secolo XV e durante tutto il secolo XVI si ha, in tutta risposta e in tutta Europa, una legislazione fortemente repressiva e sanguinaria contro il vagabondaggio. Il verificarsi di un vertiginoso aumento di un ampio strato di vagabondi rese anche la pratica della carità cristiana indiscriminata assai pericolosa ed inefficace di fronte al problema della disoccupazione: i poveri erano ormai troppi. Decisamente troppi! E come risponde la legislazione europea in genere? Con l’impedire la convergenza di troppi poveri entro i confini di una città particolare con l’adozione di provvedimenti coercitivi per impedirne quanto meno il libero movimento. Inoltre, i mutamenti intervenuti nel ruolo sociale della Chiesa e la confisca delle proprietà ecclesiastiche (pratica comune in diverse zone del nostro continente) trascinavano in una crisi profonda tutto il sistema dell’assistenza sociale a base religiosa. Di qui, a ruota, sostanzialmente nasce anche un problema – sicurezza nelle città, soprattutto al tramonto e il proverbiale ammonimento a non girare dopo il crepuscolo per paura di incontrare brutti ceffi senza arte né parte o meglio…senza lavoro.

Tornando alla workhouse, essa era organizzata in modo fin troppo rigido con tempi strutturati e pratiche lavorative minime, ripetitive e “protochapliniane”. Certamente era comunque una soluzione decisamente più avanzata, in termini quanto meno umani (non ci spingiamo a definirli giuridici), rispetto a soluzioni capitali. Quindi, mentre la politica dell’inizio del XVI secolo mirava ad eliminare la mendicità, verso la metà del secolo i nuovi programmi erano orientati al raggiungimento di obiettivi più direttamente economici; essi cercavano di impedire che il povero rifiutasse di erogare la propria forza lavoro, come accadeva quando egli preferiva ciondolare per la città chiedendo qualche spicciolo piuttosto che lavorare per un basso salario.

L’adozione, verso l’inizio del XVII secolo, come detto poc’anzi, di un metodo più umano per la repressione del vagabondaggio (le houses of correction) fu, in buona parte, il risultato di un mutamento delle condizioni economiche generali. In varie zone d’Europa si riscontrano molte sostituzioni delle pene capitali, corporali o di semplice “bando”, con lavori pubblici obbligatori o con l’internamento nelle case di correzione, specie nei casi in cui i condannati siano artigiani. E ciò per due motivi: da un lato, una sentenza disonorevole avrebbe significato la condanna dell’artigiano e della sua famiglia alla rovina poiché lo avrebbe privato del diritto di esercitare il mestiere; dall’altro, si voleva usare il lavoro di esperti artigiani al servizio dello Stato.

Il tutto era foraggiato dalle incalzanti propagande calviniste diffusesi nei paesi della Riforma, e da quelle cattoliche della Controriforma, che fomentavano le varie politiche sociali nazionali: il dovere (religioso e/o civico) di lavorare, la condanna come criminale dell’ozio, etc. La forza lavoro assume carattere di risorsa basilare per lo stato (e di ciò ne avevamo fatto cenno in un articolo precedente) e di conseguenza pene capitali e corporali diventano desuete e antiproduttive se paragonate a nuovi metodi penali, maggiormente rispondenti a ragioni di tipo economico che a preoccupazioni di tipo umanitario. Attenzione, però: i reati più gravi come omicidi o delitti di lesa maestà umana (o divina) rimasero implacabilmente puniti con la morte, ma i castighi fisici (mutilazioni, bastonature, fustigazioni) o infamanti (gogna, berlina, marchio, che vi invito ad indagare in maniera personale) previsti per illeciti meno gravi e destinati ai poveri (ai ladri, agli evasori del fisco) e ai vagabondi, ai mendicanti o più semplicemente a chi viveva ai margini della società, cominciarono ad essere sostituiti da altri tipi di sanzioni criminali, socialmente ed economicamente più utili.

Più vero il secondo avverbio del primo. Ma in tutto ciò, che fine ha fatto il diritto, quello vero, quello dei codici? Nel secolo XVI il diritto e la procedura penali erano passati definitivamente dalla sfera privata a quella pubblica. Ma questa trasformazione si rivelò comunque fallace e non aumentò di molto l’efficacia o l’imparzialità del sistema di giustizia penale, anzi. Il trionfo del diritto penale pubblico su quello privato si mosse parallelamente al trionfo dell’arbitrarietà quasi assoluta dell’azione giudiziaria e all’adozione di codici di pena eccezionalmente severi.

La capricciosità della giustizia e la severità delle pene erano il sintomo di due fenomeni che dettero forma al moderno sistema di giustizia penale in Europa: la struttura dell’autorità di governo e la necessità di creare uno strumento per controllare e disciplinare le masse povere. Ciò col placet religioso: finanche lo stesso Lutero condivideva lo spirito con cui le pene erano amministrate; afferma lui stesso che «la mera esecuzione non è pena sufficiente e che i governanti devono perseguire, colpire, strangolare, impiccare, bruciare e torturare la teppa in ogni modo. L’uso della spada è un sacro dovere di chi regna».

Nel corso del secolo XVII, era emerso, quindi, l’assolutismo (politico, amministrativo e quindi giudiziario) nella sua forma classica e più tradizionale e fu in questo periodo che il problema della criminalità di massa si fece realmente acuto e per la prima volta nella storia dell’uomo. Il sistema era totalmente arbitrario a tutti i livelli, a partire dall’inizio delle indagini: tra i mezzi usati per raccogliere prove c’erano la violazione della privacy (con buona pace della nostra costituzione agli articoli 14, 15 e 21 e della nostra 196!), lo spionaggio, le denunce non comprovate e gli interrogatori segreti. Il magistrato di grado superiore aveva quindi un’incredibile libertà d’azione su quasi ogni aspetto del processo ed inoltre era del tutto libero quando non deliberatamente e fortemente consigliato ad adottare procedure e imporre sanzioni senza precedenti.

A qualche nostro solone di oggi potrebbero quasi fischiare le orecchie! E le esecuzioni continuavano ad essere pubbliche, soprattutto in periodo di Ancien Régime: il sovrano doveva dar conto solo a Dio e quindi la sua legge (tutta sua!) era equiparata e quella divina. Ecco perché all’atto delle brutali esecuzioni capitali in piazza, al cospetto della plebaglia gaudente o timorosa (non fa differenza) a illustrare la sentenza era di solito un prete (la giustizia del Principe guidata quindi dalla “mano” di Dio) che offriva, inoltre, al morituro un’ultima chance di salvezza, solo o quanto meno spirituale e non meramente fisica, attraverso la confessione (spesso rifiutata con atti violenti come lo sputo o la bestemmia). Piccolo dettaglio: le esecuzioni pubbliche erano effettuate nei momenti di “punta” della città, nelle ore della giornata in cui le piazze era gremite affinché l’atto potesse essere sempre da monito e da esempio. Ciò, come detto, continuava ad avvenire in casi di reati gravi e fuori dalle workhouses, che, in punta di diritto e di storia del diritto, rappresentano il primo e altamente significativo esempio di detenzione laica non a fini di mera custodia che possa essere osservata nella storia del carcere. Il Seicento ed il Settecento, quindi, crearono poco alla volta (e talvolta facendo anche passi indietro) quel tipo di istituzione che prima l’Illuminismo e poi i riformatori dell’Ottocento avrebbero assunto come modello nella formulazione della moderna forma del carcere.

A cura di Claudio Marengo – Iscritto al Partito Radicale Nonviolento Transnazionale e Transpartito

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