Vi presentiamo la quarte parte del viaggio nella storia penale e carceraria italiana. La prima parte, sulla concezione della pena in epoca romana e durante le invasioni barbariche, è disponibile cliccando su questo link. La seconda parte, incentrata sull’età medievale, è consultabile qui. La terza parte, sugli albori dell’età moderna, si trova qui.
Prima di addentrarci appieno nel momento della svolta per quanto riguarda questo nostro breve e certamente lacunoso percorso di “storia del carcere”, è d’uopo ricordare anche cosa accadeva da noi, soprattutto in quelle città come Firenze, Milano e Napoli, che saranno culla dell’Illuminismo italiano. Nella seconda metà del XVII secolo viene realizzata una delle prime, forse la prima, esperienza del carcere moderno: la prima struttura che ha isolamento cellulare. Siamo a Firenze, patria delle humanae litterae, del Rinascimento, del trionfo dell’arte e della cultura: eppure nell’Ospizio del S. Filippo Neri viene istituita una sezione destinata a giovani rampolli nobiliari che vivono situazioni di disagio e disadattamento sociale e relazionale. Come dicevamo, è il primo caso di isolamento cellulare a scopo correzionale: 8 piccole, anzi piccolissime (sarà qui la modernità? Domanda retorico–ironica, la nostra!) celle, in cui i ragazzi (perché tali erano) venivano rinchiusi in isolamento h24. Alla fine del Seicento, a Milano, invece, vengono realizzati una “Casa di Correzione” e un “Ergastolo”: nella prima vengono rinchiusi i colpevoli di reati minori tenuti in regime di separazione cellulare; nel secondo i condannati per reati gravi, che non vivono in isolamento (diverrà obbligatorio in seguito) e vengono utilizzati in lavori di pubblica utilità.
E veniamo alla “mia” Napoli: ancora oggi uno dei quartieri limitrofi al centro storico è denominato “Vicaria”. La Vicaria era appunto una prigione orribile al cui interno furono internati circa un migliaio di detenuti, decisamente al di sotto del mero livello di sopravvivenza. Il quartiere era ed è ad oggi noto anche come “Il Vasto”, la cui etimologia deriva da “guasto”: già secoli fa era un quartiere malfamato, abitato dal sottoproletariato contadino che non diventò mai urbano, da gentaglia, da miseria, da disperati. Questo quartiere, insieme ad altri come Chiaia, Pendino, Porto e Mercato, fu letteralmente raso al suolo in nome del “Risanamento” della seconda metà dell’Ottocento, seguendo il diktat depretisiano del “Dobbiamo sventrare Napoli” (che non può non ricordare il capolavoro della Serao, “Il ventre di Napoli”, di cui suggeriamo la lettura per avere un’idea della Napoli che fu, meravigliosa e drammatica). Nella foga della distruzione andarono persi monumenti e ricordi della Napoli aragonese e angioina. Lì c’era appunto il carcere “Vicaria” coi suoi miserevoli ospiti. E come non citare il famoso “Serraglio”, anche se servirebbe qui una storia a parte. Nasce come “Real Albergo dei Poveri”, voluto da Carlo III di Borbone e progettato dall’architetto Ferdinando Fuga, per ospitare una massa enorme di diseredati, orfani e disperati: progetto monumentale, pachidermico e mai finito del tutto, neanche oggi, spesso abbandonato per decenni, anche a causa dei vari sismi che hanno colpito la città (da ultimo quello del 1980 che causò alcune vittime all’interno). Chi ha visitato Napoli sa di cosa stiamo parlando, per chi ancora non l’ha visitata… si spera che queste parole siano da guida e da stimolo per farlo!
La detenzione, quindi, almeno fino alla metà del XVIII secolo, non era una pena in sé, da intendersi nel senso odierno del termine, ma rappresentava un mezzo per impedire che l’imputato, in attesa di una condanna, si sottraesse alla stessa. Il carcere, quindi, non era una sede costruita ad hoc per la finalità detentiva, ma un edificio, di solito nelle immediate vicinanze del tribunale, che veniva adattato a tale scopo ed essenzialmente concepito come luogo di custodia temporanea per imputati in attesa di giudizio o dell’esecuzione della pena. Solo verso la metà del XVIII secolo il carcere fu inteso come luogo di espiazione delle pene detentive e acquistò rilevanza sociale; ciò perché il ricorso alla pena della privazione della libertà era divenuta la sanzione prevalente che veniva applicata ai condannati. Fino alla metà del Settecento, le concezioni della pena e, più in generale, della società introdotte dalla mentalità mercantilistica continuarono a regnare senza sosta: a ciò si aggiungeva il caos della giustizia penale: il più triste spettacolo… incertezza e confusione nelle leggi e nella interpretazione di esse, rigore ed atrocità delle pene, esagerata incriminazione. Gli eccessi erano portati all’eccesso (e ci perdonerete il bisticcio lessicale).
L’arbitrio e l’incertezza caratterizzavano tutti i settori dell’ordinamento penale e dell’attuazione dei suoi percorsi: dal diritto sostanziale al processo, dall’attività giurisdizionale in senso stretto a quella relativa all’esecuzione delle pene. La mancanza di regolari codici e di precise direttive riguardanti le pene era causa di inevitabile arbitrarietà da parte dei giudici. Attenzione, sembrerà assurdo ma così era: e fu proprio questa deriva confusionaria a far nascere i pensieri illuministici sul carcere. Cosa aggiungere? Non solo i reati erano definiti in maniera generica dalle leggi penali, ma si poteva essere incriminati anche per fatti che nemmeno erano previsti dalla legge come reato. E non solo: per certi delitti non era specificata la pena ed il giudice era autorizzato a sceglierne una (quale? E soprattutto in base a quali criteri?) fra le pene previste per altri delitti. In altri casi la pena era precisata, ma il giudice aveva il diritto (?) di aumentarla o diminuirla in considerevole misura a seconda delle circostanze; l’unica limitazione consisteva nel non potere inventare pene completamente nuove, tirate fuori dal cilindro come il coniglio dell’illusionista.
Ma qui non siamo dinanzi ad un’illusione, non siamo al circo, se non inteso come raccapricciante carnevale umano che ha distrutto migliaia di vite e famiglie. Si parlava di eccessi degli eccessi… ebbene, nei casi di prove non piene, la terribile invettiva della prassi aveva portato all’introduzione della pena straordinaria e le differenze di casta o rango sociale incidevano sull’amministrazione della giustizia e, soprattutto, si proiettavano anche nella esecuzione, essendo previsto un diverso modo perfino di eseguire la stessa pena di morte in relazione alla classe sociale a cui apparteneva il condannato. In soldoni: non solo potevano corrispondere pene diverse a parità di reato, ma, anche in caso di uguaglianza della pena, se X era nobile poteva addirittura cavarsela con la diretta esecuzione (e gli venivano risparmiate le torture), ma se Y era un morto di fame… fate voi!
Ricevevano inoltre larga attenzione i delitti di opinione, che attenevano esclusivamente alla coscienza personale, alla sfera delle mere intenzioni, senza tradursi in comportamenti materiali esterni (questo è in atto ancora oggi: può un’opinione considerarsi reato? Per chi scrive, mai nella vita!), quali gli illeciti contro la religione e lo Stato, classificati come reati di lesa maestà divina ed umana. Un posto di tutto rispetto lo manteneva la superstizione (sì, nel campo della giustizia) ed ancora nel XVIII secolo avvenivano processi per stregoneria e impiego di arti magiche, e le “streghe” continuavano ad essere date alle fiamme. Ricordiamo che il Tribunale dell’Inquisizione nasce nel Concilio di Verona del 1184 ad opera di Papa Lucio III col placet di Federico Barbarossa e diviene strumento di persecuzione e morte soprattutto con Papa Innocenzo III, Onorio III e Gregorio IX: esso cambia più volte nome ed oggi è, con compiti ovviamente diversi, Congregazione per la dottrina della fede (rinominata così da Papa Paolo VI nel 1965). Solo nel 2000 Papa Giovanni Paolo II ha chiesto pubblicamente e formalmente “scusa” in un suo discorso per gli atroci crimini commessi “in nome di Dio”.
In tale momento, ad opera soprattutto di Cesare Beccaria e Giovanni Howard in Inghilterra, affiorano alcuni principi innovatori che ispireranno tutti i successivi orientamenti in materia penitenziaria. Due su tutti: il principio dell’umanizzazione della pena intesa come castigo inflitto nei limiti della giustizia in proporzione al crimine commesso (cosa non affatto scontata, come abbiamo visto) e non secondo l’arbitrio del giudice (appunto!) e il principio della pena come mezzo di prevenzione e sicurezza sociale e non come pubblico spettacolo deterrente per la sua crudeltà. Con la pubblicazione, nel 1764, del volume di Cesare Beccaria Dei delitti e delle pene, che si inseriva nel radicale processo di riforme illuministiche, si intensificò il dibattito sulla finalità della detenzione e sull’abolizione della pena di morte.
Con l’affermarsi della detenzione come pena e non come mezzo per l’esercizio della potestà punitiva, a partire dalla seconda metà del Settecento si fanno strada diverse teorie che hanno tutte in comune l’intento di razionalizzare le condizioni delle carceri e di cercare di abolirne gli aspetti più violenti (tortura e pena di morte) tipici delle società di antico regime, che stava fortunatamente tramontando. Questo fermento di idee generatosi nell’ambito del movimento illuminista portò alla consapevolezza della necessità di riforme penitenziarie volte alla trasformazione delle prigioni da luoghi di orrore, infamia e crudeltà a luoghi di rigenerazione del colpevole, ma soprattutto non più “presunto tale”.
Cambiano i principi, finalmente. Ma cambiano anche materialmente e architettonicamente i luoghi: non più grandi stanzoni bui ma celle singole o per pochi detenuti, mentre igiene e luce capovolgono il principio della segreta. Ora si tratta di vedere bene il detenuto, di tenerlo il più possibile sotto osservazione. E finalmente entra la luce. Alla fine del Settecento, la situazione era già notevolmente modificata. I luoghi e l’ora delle rappresentazioni erano gli stessi e, come nel passato, l’ora era scelta in modo da consentire un notevole afflusso di pubblico. Tuttavia, era cambiata l’atmosfera, il clima umano e culturale che si respirava. Come nel passato, il percorso dal luogo di detenzione al patibolo veniva allungato enormemente, ma i cortei adesso, pur attraversando le strade più popolose della città, evitavano di toccare i quartieri “eleganti”, nei quali abitava la maggior parte dell’aristocrazia settecentesca; ad essa veniva risparmiato il triste spettacolo che continuava ad essere offerto, invece, al resto della popolazione.
Era una decisione che confermava un atteggiamento da parte della classe dirigente di ripulsa e rifiuto verso uno spettacolo che doveva essere offerto solo al popolo, il quale evidentemente ne aveva bisogno, oltre a trarne soddisfazione. Ciò è il paradigma e il limite di tutto il meraviglioso movimento riformatore illuminista: alto-borghese, elitario, finanche snob, che ha, volutamente o meno, consapevolmente o meno, estromesso le masse dall’affrancamento dall’ignoranza. I cortei settecenteschi attraversano le strade molto velocemente e cambia anche la “messa in scena”: in passato, si verificavano varie soste, durante le quali al condannato venivano inflitti supplizi che richiamavano il crimine da lui commesso (ad esempio, agli assassini veniva amputata la mano che aveva dato la morte alla vittima). Adesso, invece, l’amputazione diventa finta, simulata, teatrale, solo apparente, mediante finti colpi di coltello.
L’antico spettacolo di morte, tipico della prima età moderna, veniva sì replicato, ma si trattava di un’imitazione che coglieva solo la superficie dell’azione drammatica. Ciò che i riformatori Illuministi attacca(va)no, nella giustizia tradizionale, prima di stabilire i principi di una nuova penalità, è l’eccesso dei castighi: ma un eccesso che è legato più ad una irregolarità, che ad un abuso del potere di punire. L’Illuminismo è ordine, razionalità, precisione e non tollera caos e irrazionalità. Anche in questo.
Ce lo dice Michel Foucault: «In una parola, far sì che il potere di giudicare non dipendesse più dai molteplici privilegi, discontinui, contraddittori talvolta, della sovranità, ma dagli effetti, distribuiti con continuità, del potere pubblico». Se con un trattamento giusto si può conquistare la coscienza del criminale, con gli abusi, nello stesso modo, ce la si può inimicare. Era questo un facile assioma che però ha fatto fatica a venire recepito. I riformatori insistettero sovente sul fatto che punizioni fisiche come la fustigazione e lo squallore delle prigioni stavano erodendo il rispetto per la legge fra i delinquenti e nell’opinione pubblica in genere; essi misero inoltre in guardia contro la severità, spesso capricciosa, di esecuzioni troppo frequenti e di sanguinarie esecuzioni pubbliche che bollavano i delinquenti e li confermavano nella disonestà invece di guidarli a un positivo mutamento della loro condotta.
Una correzione eccessiva neutralizzava le intenzioni della legge, provocando nella folla un maggior grado di compassione (proprio nel suo senso latino di “soffrire insieme”) per la vittima che indignazione per il delitto. Era fondamentale che il sistema legale conservasse il suo alone di legittimità agli occhi dell’opinione pubblica. La sua freddezza, la sua autorevolezza, lasciando da parte i sentimentalismi in nome del rispetto della persona e dei suoi diritti. Solo questo. Non ci sentiamo di dilungarci oltre, soprattutto su figure immortali come lo stesso Beccaria, sul quale è stato scritto tanto. La rivoluzione, quanto meno nel pensiero, era cominciata.
A cura di Claudio Marengo – Iscritto al Partito Radicale Nonviolento Transnazionale e Transpartito
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