di Deborah Praticò
Konnichiwa, amici di Suddiario! Prima di incamminarci in questo lungo racconto, è doveroso partire dall’inizio e parlare un po’ di chi si sta rivolgendo a voi.
Mi chiamo Deborah Praticò, ho 24 anni e la maggior parte dei miei natali li ho trascorsi nella solare Reggio Calabria. Mi sono sempre considerata una ragazza tranquilla, forse un po’ timida e impacciata nelle pubbliche relazioni, cresciuta in un ambiente calmo a suon di sigle di cartoni animati che i miei genitori registravano per tenermi tranquilla.
Ed è proprio grazie al ritmo incalzante della sigla di Lupin ed ai corni distinguibili di Robin Hood prima, alle gesta eroiche dei Cavalieri dello Zodiaco passando per Sailor Moon e maghette varie ed eventuali poi, che mi sono ritrovata ad avere un primo contatto con quella che è la cultura giapponese, tramite appunto le serie animate. Cartoni che hanno accompagnato l’infanzia di ogni ragazzino, un’infanzia che per quanto riguarda me non si è mai conclusa. Sono dovuta arrivare alle superiori prima di conoscere il termine corretto con cui i cartoni vengono definiti nella loro patria, ovvero anime, e i volumi da cui essi la maggior parte delle volte vengono tratti, i manga. Essenze che mi hanno fatto crescere l’amore per il Paese del Sol Levante, unito alla voglia di volermici un giorno trasferire e lavorare negli stessi reparti editoriali che hanno sfornato i miei manga preferiti, che mi hanno cullato e fornito alcuni dei valori che mi porto dietro ancora oggi.
Nel momento della mia scelta universitaria, non è stato difficile capire cosa volessi fare, ovvero lo studio della lingua giapponese e per fortuna ho trovato questo percorso a Reggio Calabria, nel quartiere di Catona, alla Scuola Superiore per Mediatori Linguistici Don Domenico Calarco. Lì ho avuto modo di avvicinarmi un po’ alla letteratura giapponese, oltre che alla realtà di questo Paese a 360°, il che mi ha permesso di aprire gli occhi su molte questioni che sono state oggetto della mia tesi con la quale mi sono laureata a luglio di quest’anno.
Nonostante tutto, il mio sogno di andare in Giappone non è mai venuto meno, e se vi sto raccontando tutto questo è proprio perché nel mese di ottobre sono riuscita a prendere quel tanto agognato aereo in quello che è stato il viaggio più lungo. Non volevo solo viaggiare ma anche approfondire la lingua che è stata mia compagna nel corso di tre lunghi anni universitari.
Dopo molte ricerche in rete, ho deciso di rivolgermi all’Agenzia Simonetta di Reggio Calabria, che ha cercato e preparato il mio viaggio poggiandosi su Viva Lingue, che si occupa proprio di viaggi studio all’estero. Cinque settimane nella mia città tanto agognata con sistemazione presso una famiglia. Era la prima volta che mi ritrovavo a viaggiare da sola, e mi sono sempre ritrovava a pensare che dall’altra parte del mondo ci sarei andata con qualche tour organizzato e con altre persone appassionate quanto me, invece è stata proprio una bella sfida da affrontare.

Il 7 Ottobre sono arrivata all’aeroporto di Narita, ed è stato decisamente emozionante vedere la tanto attesa scritta che dava il benvenuto in Giappone. Erano anni che la vedevo sempre nei video o nelle foto di altre persone, e trovarmela davanti mi ha fatto capire che ce l’avevo fatta, che questo non era un sogno e che ero davvero arrivata.
Recuperate le valigie ho trovato ad attendermi Sato-san, la mia transfert, la quale mi ha aiutato a cambiare i soldi, dopodiché ci siamo messe in viaggio verso l’abitazione della mia Famiglia ospitante. È stata la mia prima volta sulla metro, e mi sono abbastanza sorpresa nello scorgere così tanta natura e villette tradizionali nella zona di Narita.
Ero stanca, complice anche l’insonnia che mi ha tenuto compagnia per 12 ore di aereo, ma nonostante tutto volevo godermi ogni cosa, ogni minimo passaggio che ai miei occhi è apparso decisamente meraviglioso.
Arrivata a Kiyosumi sono stata accolta dalla mia host mother, Tomoko-san, che mi ha fatto sentire a mio agio e mi ha guidata verso l’abitazione situata a Koto-ku. La casa non era tanto piccola come me l’aspettavo e il quartiere abbastanza silenzioso nonostante la presenza di un deposito di scarico merci, una scuola elementare e un parchetto giochi.
Tomoko-san mi ha poi mostrato la mia stanza per permettermi di sistemarmi e mi ha illustrato le regole della casa, per fortuna in inglese, anche se usava entrambe le lingue per cominciare a farmi abituare.

Dopo quasi un’ora ho conosciuto anche il mio host dad, Tomohiko-san, e Soma-kun, il loro figlioletto di sei anni frequentante l’ultimo anno d’asilo. Inutile dire che entrambi non parlavano assolutamente inglese, quindi in qualche modo me la sono dovuta cavare, ma per fortuna Tomoko-san interveniva in mio soccorso facendomi da interprete quando non riuscivo a trovare le parole in giapponese. Mi sono trovata davvero bene in loro compagnia, un fattore neutro? La poca presenza di Tomohiko-san dovuta al lavoro, che me lo faceva vedere davvero poco durante la giornata, di conseguenza sono state poche le occasioni avute per provare a interagire con lui, ma vi assicuro che qualche serata a tema anime ce la siamo fatta, ed è stato un bel momento di condivisione di una nostra comune passione.
C’è da dire che non abbiamo svolto molte attività di famiglia, prevalentemente ero sempre in giro per Tokyo da sola, ma le poche mi sono davvero piaciute molto. Come la visita a un Pokémon Center di recente inaugurazione, per andare incontro al mio amore e a quello di Soma-kun per i mostriciattoli tascabili. Con loro ho sperimentato il mio primo ramen, yakiniku (carne grigliata) e sushi a nastro, tutti piatti che, quando ero in Italia, non vedevo l’ora di provare e che non mi hanno deluso per niente.
Tomoko-san, inoltre, era molto disponibile, sempre pronta ad aiutarmi via chat di LINE se non riuscivo a orientarmi quando ero da sola, oltre che mostrarmi il percorso di metro ideale per raggiungere il quartiere che avevo deciso di voler visitare quel giorno. Con Soma-kun, ho invece capito quanto i bambini giapponesi sono tenuti a fare tanto anche a partire dall’asilo, compiti su compiti e una cartella piena di libri. Dopo qualche settimana dal mio arrivo ha sostenuto anche il test di ingresso per entrare alla scuola elementare.
Sapevo già tutte queste cose, ma vederle con i miei occhi mi ha dato un altro impatto sulla realtà giapponese.
Nonostante tutto, ho sempre trovato Soma-kun un bambino molto allegro, a cui non viene mai fatto mancare nulla, ma anche di una dolcezza unica. Si è affezionato molto a me, ed è inutile dire che si è messo a piangere nel momento in cui mi sono ritrovata alla stazione per raggiungere nuovamente l’aeroporto di Narita. E io con lui.
Come detto, uno dei motivi che mi ha spinto ad andare in Giappone è stato l’approfondimento della lingua, e la scuola che hanno trovato per me era la ISI Language situata nel quartiere di Takadanobaba. Il primo giorno ho scoperto di non essere l’unica italiana presente e la cosa mi ha rallegrato parecchio, e devo dire di essermi subito trovata bene insieme a loro. Dovevamo svolgere il test per il livello in modo da capire in che tipo di classe saremmo capitati per lo svolgimento delle lezioni. Il test comprendeva una prima parte orale con un insegnante che poi assegnava un tipo di compito diverso in base a cosa dicevamo e come, e io non credo di essermela cavata male. Il compito scritto aveva la durata di un’ora e aveva quattro pagine piene di esercizi vari, tra cui molta grammatica. Ammetto di aver un po’ tentennato durante lo svolgimento, anche perché con gli esami universitari di Giapponese ero abituata a ben altre tempistiche. Il pomeriggio, invece, ci hanno spiegato le regole della scuola e ci hanno rimandati al giorno dopo con il party di benvenuto e la rivelazione delle classi in base al risultato del test.

Il party è stato decisamente molto piacevole, si respirava una bellissima atmosfera e i professori presenti sono stati molto cordiali e ci hanno messo immediatamente a nostro agio. C’erano bibite e snack tipici giapponesi, alcuni dei quali criticati nei video che mi è capitato di vedere prima della mia partenza, ma a me sono piaciuti abbastanza. È stato poi il momento del bingo e, nonostante fosse la prima volta che ci giocavo, sono riuscita a vincere una borraccia con sopra disegnati dei gatti. Dopo il party ci siamo diretti al piano terra dove mediante i computer abbiamo controllato l’assegnazione della classe, e il test fatto mi ha un po’ penalizzata ma volevo vedere come si sarebbero svolte le lezioni prima di richiedere, eventualmente, un cambio classe. Parlando della mia classe, era decisamente di prevalenza cinese e coreana, ma c’erano anche due inglesi e un francese, mentre io ero l’unica italiana presente. Devo dire che, anche se siamo partiti un po’ dall’inizio, mi sono trovata decisamente molto bene insieme a loro, e i miei quattro professori sono stati molto alla mano oltre che simpatici, e nonostante le lezioni si svolgessero in giapponese, come è giusto che sia, non mi sono mai trovata male a livello di comprensione.
Nella mia carriera scolastica ne ho fatti di viaggi studio, ma ero sempre in compagnia quindi iniziavo e finivo sempre con i compagni che erano insieme a me. Essendo stato questo il mio primo viaggio in solitaria, sono stata la prima a finire il corso e devo dire che mi sono abbastanza commossa nel vedere il trattamento che mi è stato riservato il mio ultimo giorno. Ognuno dei miei compagni mi ha rivolto un saluto, oltre che dedicarmi un bigliettino che l’insegnante ha raccolto in una piccola cartelletta di cartone. Mi sono abbastanza emozionata, anche perché non ho avuto molte occasioni di dialogo insieme a loro, ma non posso ancora oggi che ricordarli con estremo piacere e non nascondo che provo una sorta di nostalgia nei loro confronti. Per quanto riguarda i miei compagni italiani, poche sono state le occasioni che ho avuto con loro fuori dal contesto scolastico, ma nonostante le classi diverse c’erano sempre per scambiare un conforto e un confronto, e ancora oggi mi capita di sentirli e di seguire le loro avventure nipponiche attraverso i social.

Parlando dei luoghi visitati, non ho potuto spostarmi fuori Tokyo e di conseguenza mi sono limitata alla visita dei quartieri più famosi che questa città ha da offrire. Avendo per cinque giorni a settimana la scuola, dedicavo i week-end alle mie piccole gite in solitaria, ma nonostante questo sono riuscita a vedere la maggior parte delle cose che mi ero prefissata.

Tra le cose che mi hanno maggiormente colpito non posso non citare il Kiyosumi Park, situato nello stesso quartiere della mia abitazione. Un parco grandissimo con un prezzo irrisorio d’accesso, un luogo che mi ha fatto ancora di più capire quanto il Giappone riesca ad unire elementi naturali e cemento senza farli risultare un pugno nell’occhio eccessivo. Quel giorno era una grigia giornata, ma la natura non ha affatto risentito, si respirava una atmosfera di pace il cui unico rumore presente era il verso di qualche papera, nonostante le persone presenti, portatori di rispetto come solo i giapponesi sanno essere.

A due fermate da Kiyosumi, invece, si trova il quartiere di Oshiage con la Tokyo Sky Tree che, con i suoi 634 metri, è considerata la torre più alta del mondo. È stato decisamente un bell’impatto poter salire fino al punto più alto accessibile e osservare Tokyo in tutta la sua grandezza e magnificenza. Ho potuto riconoscere solo pochi dettagli dei vari quartieri dove sono stata, ma è stato divertente vedere come i giapponesi presenti indovinavano ad occhio sicuro le varie zone mentre io dovevo continuamente guardare la cartina che avevo in mano per riuscire a orientarmi come si deve. La cosa che più mi ha rammaricata è stata non riuscire a vedere il Monte Fuji, uno dei motivi che mi ha spinto a salire sulla torre, in quanto la giornata era nuvolosa e di conseguenza era quasi impossibile scorgere le montagne in lontananza.

Shibuya non ha deluso per niente le mie aspettative, lo consideravo il mio quartiere del cuore da praticamente sempre e il giorno in cui sono andata è riuscito a donarmi più di una emozione. A partire dalla statua del cane Hachiko, fino ad arrivare al Meiji Jingu, nonché uno dei santuari più famosi della città. Anche questo l’ho sempre visto in foto o video, ma vederlo dal vivo mi ha talmente toccato che è riuscito a farmi esternare la mia felicità sotto forma di lacrime, riuscendo a donarmi una nuova forma di entusiasmo, una scintilla che non ha fatto altro che accrescere la mia carica nei confronti di questo paese.

Non poteva mancare la tappa a Ueno per vedere il parco più famoso di Tokyo, e bisogna dire che è davvero immenso oltre che bellissimo e pieno di cose da vedere, complici anche i vari musei e lo zoo. Io sono riuscita a guardare quello di scienze naturali che mi ha portato via una mezza giornata, perché io purtroppo mi perdo via quando sono circondata da queste cose, e allo zoo ho perso una cosa come 80 minuti per riuscire a vedere i panda, una fila immensa per cinque minuti scarsi da dedicare alla loro visione. Mi sono rammaricata del fatto che, nonostante ci sia stata tutta la giornata, sia riuscita a vedere solo una piccola parte di questo parco immenso e abbia tralasciato molte cose che non mi sarei voluta perdere, come il mercato di Ameyoko pieno di stand con prodotti tipici locali ed altre cose. Spero di poter tornare a Tokyo presto, in modo da recuperare quello che purtroppo ho tralasciato.
Ad Odaiba ho trovato un po’ di America per la presenza di una riproduzione della Statua della Libertà, più piccola di quella originale, ma che creava una bella atmosfera con il Rainbow Bridge situato sullo sfondo. Però bisogna dirlo, l’isola artificiale potrebbe essere vista tranquillamente in una mezza giornata perché di cose da guardare ce ne sono decisamente ben poche. Ma per gli amanti degli anime “mecha” non può mancare la visita alla gigantesca statua del Gundam Unicorn installata nell’ultimo anno, una statua che mi ha tenuta minuti interminabili ad osservarla come se volessi trattenere nella mia memoria ogni minimo dettaglio e ricordarla di conseguenza. Ho poi concluso la mia visita salendo sulla ruota panoramica chiamata Palette Town, una ruota dalle cabine dai colori pastello che si illumina di sera, io ho fatto l’errore di andarci di giorno e di conseguenza non ho potuto ammirare la vera magia di Odaiba nelle sue luci e nelle sue atmosfere suggestive.


Dalla baia si può tranquillamente prendere il traghetto che porta direttamente ad Asakusa, il quartiere dove ancora una volta ho camminato in una nuova ricerca spirituale. Passare dal famoso Kaminarimon ed entrare in una grande via con ai lati ogni genere di negozio con in lontananza il Sensō-ji che si è palesato ai miei occhi come qualcosa di magnifico, dalle pagode alle statue di vari Buddha fino ad arrivare ad una sorta di area naturale con piccola cascata annessa, e ancora una volta mi sono stupita come nonostante ci fossero tante persone si respirasse una sorta di disordine ordinato e un silenzio non da tutti i giorni. Come Odaiba, ho potuto constare che anche Asakusa è decisamente fattibile in mezza giornata in quanto le cose da vedere sono decisamente poche e tutte situate vicine, non si fa assolutamente fatica a trovare tutte le cose che ci si è prefissati di vedere.
Non sono mancate le mie tappe dedicate agli anime, e non posso non citare il quartiere per eccellenza, considerato la terra di perdizione per ogni amante del genere: Akihabara, con una moltitudine di negozi dedicati ai manga, action figure, gadget, cosplay, bar a tema e maid café. Gli stessi treni che portano a questo quartiere hanno le fiancate dedicate ai personaggi di anime o videogiochi, come personaggi di anime possono essere trovate pubblicitarie per sponsorizzare qualche bibita energetica particolare.
Ad Ikebukuro, all’interno del Sunshine City, sorge uno dei più grandi Pokémon Center presenti a Tokyo, oltre che il J-World, una sorta di parco tematico dedicato al mondo degli anime shōnen, con aree dedicate a Dragon Ball, Naruto, One Piece, HunterxHunter e tanti altri, dove è possibile fare dei giochi appunto dedicati al mondo di questi anime. Io ne ho fatto uno dedicato a One Piece, che consisteva nella tipica cassetta di sabbia da sciacquare e le gemme che riuscivi a trovare te le potevi portare a casa. La particolarità del J-World è che, ogni qual volta personaggi importanti di anime fanno il compleanno, gli si dedicano dei cartonati all’ingresso e dei piatti speciali che vanno a comporre il menù variegato della cucina, anch’essa composta da ogni genere di piatto, bevanda e dolci dedicati.
Infine, è doveroso citare Nakano con il suo Mandarake, quattro piani di negozi dedicati ai manga, dove è possibile trovarli a poco prezzo in quanto sono per lo più degli usati. Scaffali infiniti dove ci si può decisamente perdere nel cercare dei titoli di proprio interesse, e posso dire che la maggior parte dei miei acquisti l’ho fatta proprio in uno dei negozi di questa enorme catena.


Che dire di Tokyo dopo tutto questo? È una città che inevitabilmente offre una visione del mondo del tutto diversa, sia a livello tecnologico che di educazione e cultura, e che è riuscita inevitabilmente a cambiarmi. Prima di partire verso questa meta non sapevo se sarei mai riuscita a cavarmela da sola in questa enorme città, e invece mi ha saputo accogliere, guidare e coccolare nei momenti giusti non facendomi sentire mai davvero fuori posto.
Un viaggio che, almeno una volta nella vita, si deve fare perché ne vale davvero la pena, e io stessa spero di tornarci quanto prima.
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