Coltivare l’impotenza: cronache di guerre e orrore quotidiano nel vuoto della politica

Nel film Quils, la penna dello scandalo (2000), Goeffrey Rush nei panni del Marchese De Sade, grida in faccia a un prete: «Siamo tutti in marcia verso la ghigliottina. E fiumi di sangue ci scorrono ai piedi». Ci sono giorni che quel sangue lo senti sbattere alle caviglie ad ogni passo.

14 aprile 2018, ore 7:00, dai social alle testate giornalistiche, rimbalza la notizia del nuovo attacco del triumvirato USA-Francia-Gran Bretagna alla Siria. Hai appena finito di stupirti che siano passati già sette anni di guerra, a metà marzo, e hai messo in un cassetto umido dell’anima la nostalgia che ti hanno lasciato dentro tutti i libri che parlano di un paese e di una Damasco che non esiste più. Strana nostalgia quella per le cose che non si conoscono, alcuni dicono che sia la peggiore. Tutto daccapo, in una grottesca guerra di muscoli tra America e Russia che non somiglia neppure lontanamente allo scenario terribile quanto austero della Guerra Fredda, ma più a un gioco di narcisismi impazziti. Un grande risiko demente manovrato dal capitale transnazionale. Marx ha avuto ragione in tante cose, anche quando disse che la storia si ripete sotto forma di farsa. Unica cosa “seria” in tutto questo, sono i milioni di rifugiati e gli innumerevoli morti.

Ore 8:30, leggi la notizia che in India una bambina di otto anni è stata rapita, stuprata e uccisa da almeno otto uomini, tra cui poliziotti e politici. Brutto quanto la notizia il movente: la vittima apparteneva a un gruppo di nomadi musulmano, la maggioranza induista temeva che si volesse stanziare nella regione. La guerra quotidiana, sempre politica, che investe il corpo delle donne, esplode in questo caso in quello di una bambina…

Condividi la notizia con alcune amiche e tutte rispondono con lo stesso sgomento riguardo alle notizie incrociate della giornata e soprattutto danno voce a quella cosa che sentivi dalle sette del mattino sbattere tra le pareti dello stomaco e quelle dell’anima: «La cosa peggiore – scrivono – è il senso di impotenza che si prova». Ed è esattamente così. Proprio vero che gli amici sono lo specchio dell’anima, ma ci sono giorni in cui niente può addolcire il reale. La cosa che svolazza dentro e che abbiamo nominato impotenza, oggi ha di nuovo fame.

Teli di plastica che avvolgono corpi come confetti, sopra un asfalto bianco orlato da un’aiuola d’erba. La cosa che sento dentro ha una vecchia origine che nella mia mente si cristallizza sempre nell’immagine di quei corpi. È la strage di Beslan. L’1 settembre 2004, durante l’inaugurazione dell’anno scolastico, un commando di guerriglieri ceceni occupa la scuola prendendo in ostaggio 1100 persone. Dopo tre giorni di assedio, l’esercito russo interviene con carrarmati e lanciafiamme. A terra restano oltre 350 persone di cui 186 bambini.

Quegli orribili caramelloni di plastica in fila sull’asfalto sono rimasti sempre con me. Andai in bagno a vomitare il pranzo che avevo rifiutato. Tentai in pratica di mandarli via, di cacciare lontano quell’immagine che i miei occhi avevano ingurgitato senza volere. Ma non ci riuscii. Sono rimasti, come pipistrelli maligni, li sento svolazzare da qualche parte sotto la pelle, o ancora più giù, in zone grigie e vuote, in cui spalancano le fauci i perché; quegli ottusi bambini che continuano a sbattere i piedi pretendendo giustizia, o al limite qualcosa che possa somigliare a un “senso”. Dal Caucaso ai corpi allineati sulle banchine, dopo la strage del 3 ottobre a Lampedusa, ad esempio, come in innumerevoli altre. È diverso ma anche uguale, sono le vittime vere, eterne, quelle per cui nessuno potrà fare più nulla, anche potendo.

Credo che ognuno abbia il suo battesimo del fuoco in fatto di orrore. Nel libro Le belle immagini, Simone de Beauvoir descrive gli incubi notturni della figlia maggiore della protagonista una volta venuta a sapere dell’Olocausto. Per me non è stata, però, la molla propedeutica ad una particolare sensibilità pacifista o civile o il preludio dell’attivismo politico. Ricordo che già nel 2001 giravo per i corridoi della scuola brandendo una kefiah in una forma arrangiata di protesta, perché i rappresentanti d’istituto non avevano esposto lo striscione contro la guerra in Iraq iniziata quell’anno, come invece fatto da altre scuole.

A Beslan, però, è stato diverso. Conoscevo poco e nulla della situazione. Non avevo nessuna opinione né tantomeno analisi politiche. Perché è questo che fa la politica, la politica vera, offre una strada per fare, un trampolino per reagire, invece di coltivare fantasmi in silenzio, in quel vuoto nell’anima che diventa voragine, dove un pipistrello continua a sbattere impazzito, mordendo alla cieca con denti da Dracula. Allora quello che accadde è stata la semplice assimilazione di un evento trasmesso in diretta. Un fatto in cui piccoli involucri di plastica venivano allineati ai margini di una strada lontana e sconosciuta. Mi si conficcò dentro con tutta la potenza della più impolitica delle solitudini: quella della disperazione.

E come fai ad avercela realmente con quelli che, per evitare di essere “colpiti” allo stesso modo da un’immagine, scelgono di alienarsi con l’ultima foto di Chiara Ferragni e l’ultima partita della Champions, quando tu stessa, a volte, faresti di tutto per soffocare quel pipistrello, magari anche solo abbracciando il tuo cane e pregandolo di portarti con lui, in quella dimensione dove il corpo esiste innocente, oltre ogni ignavia e responsabilità, nell’epoca del Not in my name urlato a mezzo social…

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  • Nata a Messina, ma con contaminazioni calabresi da parte di padre e Arbreshe da parte di nonna; ama vivere sospesa tra le due sponde dello Stretto, mescolando l’intima e continua confidenza con il mare, con le memorie d’infanzia legate alle campagne tra Crotone e Catanzaro. Si occupa di antropologia filosofica e fenomenologia tedesca, con un focus ossessivo sul corpo e l’intreccio tra biologico, esistenza e pensiero che esprime. Si allena ad osservare il mondo tramite il giornalismo, la pittura ed escursioni in vari continenti.

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