Fino a qualche tempo fa, uno degli effetti concreti del consumismo era un malessere generale, una specie di tenue malinconia che prendeva il cuore del consumatore. Non appena effettuato l’acquisto del prodotto tanto agognato o, se non immediatamente, dopo poche ore o pochi giorni, l’esaltazione consumistica si smorzava, in un declinare lento ma costante che sprofondava il malcapitato in una sorta di “novembre umido e piovigginoso” della merce e, di conseguenza, dritto tra le braccia di un nuovo desiderio.
Per dirla in maniera semplice, lo sviluppo della parabola consumistica si poteva riassumere attraverso la descrizione di un circolo vizioso: consumo → malessere → spinta al nuovo consumo. Il significato ultimo dell’ideologia consumistica consisteva in questa spinta al nuovo consumo prodotta dal malessere successivo all’acquisto.
Era la giusta punizione morale – spettro di una messa in discussione inconscia della stessa antropologia prodotta dall’epoca dei consumi – e, allo stesso tempo, il decadimento del piacere che, funzionale alla logica del consumo, provocava la necessità della ricerca di un nuovo piacere e, dunque, di un nuovo consumo. Niente di strano in effetti, nessuna novità.
Questa dinamica tra consumo e malessere, una dinamica autonoma, è esplicita, così come esplicito è il rapporto tra causa ed effetto. Ciò che non è palese, ciò che può essere la vera rivoluzione di questi ultimi anni, è la rimozione del malessere.
Siamo una società post-consumistica, ciò significa che quello che prima veniva comprato, l’esperienza consumistica appunto, adesso è diventato il banale, e forse ben più pericoloso, utilizzo. Da una società di consumatori di beni adesso siamo diventati una società di consumatori di servizi. Mi riferisco ai social media e, in generale, a tutte le esperienze offerte dalla rete, come anche alla trasformazione radicale della tradizionale vendita dei prodotti. In No Logo, libro ormai datato[1], Naomi Klein descrive, forse involontariamente, quello che sarebbe stato il futuro del consumismo: rimuovere il malessere. Se è vero che le grandi multinazionali, dalla metà degli anni Novanta, presero a fare i conti con le rimostranze dei consumatori critici, – No Logo fu un grande aggregatore di criticità nei confronti di un modello di sviluppo e di un modo di fare profitto – adesso queste rimostranze sono quasi azzerate perché le stesse multinazionali portano avanti dei progetti di sviluppo che si propongono di aiutare i paesi poveri del mondo, quando non di riqualificare un quartiere degradato di una città. Da aziende rampanti, le multinazionali sono diventate aziende attente alla realtà che le circonda, ma soprattutto attente all’attenzione del consumatore.
Come dice Slavoj Žižek nel documentario Guida perversa all’ideologia:
«Passiamo ora al clou del nostro consumismo. Mi prendo qualcosa da bere…un goccio di Starbucks coffee. Devo dire che lo bevo regolarmente, devo ammetterlo.
Ma siamo coscienti che quando compriamo un cappuccino da Starbucks noi compriamo anche molta ideologia? Quale ideologia? Quando si entra in un negozio di Starbucks di solito c’è scritto su qualche poster in giro il loro messaggio, cioè: sì, il nostro cappuccino è più caro degli altri ma… e poi arriva la storia: noi diamo l’1% del nostro prezzo per la salute dei bambini del Guatemala, per le scorte d’acqua dei contadini del Sahara, per salvare le foreste, per fare crescere il caffè biologico eccetera eccetera.
Ammiro l’ingegnosità di questa soluzione. Ai vecchi tempi del puro e semplice consumismo, compravi un prodotto e poi ti sentivi in colpa – Dio mio, con tutta quella gente che muore di fame in Africa! – per cui l’idea era che dovevi fare qualcosa per neutralizzare il tuo consumismo puramente distruttivo, per esempio, non so, la beneficenza.
Ciò che Starbucks permette ora è di essere un consumista e di esserlo con la coscienza pulita, perché il prezzo della contromisura, combattere il consumismo, è incluso nel prezzo del prodotto. Cioè, paghi un po’ di più e non sei un semplice consumista ma fai anche il tuo dovere nei confronti dell’ambiente, [del]la povera gente affamata in Africa eccetera eccetera.
E crei la massima forma di consumismo»[2].
Alla fine degli anni Novanta, forse nel 1997 e nel 1998, la Adidas organizzò un torneo di pallacanestro chiamato Streetball Challenge. Qualche anno dopo anche la Nike seguì l’esempio e propose il Nike Playground League. Reggio Calabria fu una delle città scelte per i tornei. Al di là della competizione in sé, la cosa incredibile era vedere delle strutture sportive a disposizione dei ragazzi, che finalmente potevano giocare a pallacanestro gratuitamente. Era, a tutti gli effetti, un miglioramento sostanziale dei pomeriggi di centinaia di ragazzi, un divertimento senza alcun costo, un sogno.
Ora, perché sentirsi male dopo aver acquistato un paio di scarpe da un’azienda che ha organizzato l’Adidas Streetball Challenge o il Nike Playground League? Nonostante le voci sulla violazione dei diritti umani in questa o quella parte del mondo, non era forse vero che cercavano di migliorare le cose qui da noi, nella nostra città, in una città del Sud Italia? Non era forse vero che davano un senso ai pomeriggi di centinaia di giovani in una città senza strutture sportive gratuite?
Bene, è proprio questa la rimozione del malessere.
La chiave di lettura del consumismo dei nostri tempi è da individuare nella carica di astuzie ideologiche di cui è permeato ogni prodotto: il prodotto non è un semplice oggetto ma è il trascendente a cui esso si riferisce.
E quindi consuma, perché l’azienda dà una mano dove ce n’è bisogno! Consuma, fai del bene!
Se prima ci trovavamo in una condizione di consumo per il consumo, dentro cui si insinuava il malessere che era funzionale e, allo stesso tempo, problematico, adesso siamo dentro un sistema perfetto, un sistema che ha eliminato il negativo della tristezza posteriore all’acquisto. In chiave virtuale, tutto questo si ripropone nei social media: un like su questa o quella pagina di Facebook e l’azienda darà un aiuto ai terremotati di questo o quel paese, o donerà una somma proporzionale al numero di like per contribuire a far costruire infrastrutture in un paese povero.
Questa evoluzione della dinamica consumistica ci dice alcune cose: rende palese la trasformazione definitiva del cittadino in consumatore e l’istituzionalizzazione delle aziende, che va di pari passo con una de-istituzionalizzazione dello Stato. Comunica, inoltre, la pericolosità di tutti quei sistemi che, lungi dal mantenere un confronto vivo con l’elemento negativo, lo rimuovono dal loro orizzonte di senso.
Se nel 1986 i CCCP denunciavano un Occidente ingabbiato dal capitalismo del «produci, consuma, crepa», adesso noi dovremmo dare conto di un mondo incatenato alle gioie del consumo. E dunque: «Consuma, fai del bene, sii felice».
[1] N. Klein, No logo. Economia globale e nuova contestazione [1999], Baldini & Castoldi, Milano 2000.
[2] The Pervert’s Guide to Ideology, regia di Sophie Fiennes, 2012.
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