“Chiamami col tuo nome” e il “Capriccio” del tempo

Chiamami col tuo nome di Luca Guadagnino è un film difficile, enigmatico, a tratti ampolloso, multidimensionale e talvolta oscuro. Elio, adolescente italoamericano si innamora di Oliver (giovane studente che soggiorna a casa del suo professore, nonché padre di Elio, per ultimare la tesi in Archeologia). I due condividono gli stessi spazi, si conoscono attraverso i sublimi paesaggi della campagna cremasca, e finiscono con l’intrattenere una relazione amorosa complessa e tormentata. La pellicola mostra lo svilupparsi di questo rapporto servendosi di alcuni espedienti molto cari alla Nouvelle Vague francese (lo stesso Guadagnino ha dichiarato che il suo voleva essere una sorta di tributo a registi come Rivette, Rohmer, ma anche a Bertolucci e Renoir), come lo stile molto asciutto, scenografie semplici, dialoghi strettissimi. La trama non si svolge facilmente, ritroviamo molto spesso i due amanti in condizioni e livelli di comprensione differenti, la musica stessa è complessa e articolata ma funge da strumento interpretativo efficace.

La multidimensionalità del film viene ben esemplificata da una particolare scena, quella in cui Elio (abile pianista) cerca di impressionare Oliver eseguendo al pianoforte tre diverse versioni del Capriccio sopra la lontananza del suo fratello dilettissimo di Bach. La prima è “come la suonerebbe Liszt”, la seconda à la Busoni, la terza è quella originale. Questi tre confronti sono funzionali al dispiegarsi di tre diverse profondità che emergono l’una sull’altra e si alternano per creare un abile gioco di rimandi per tutta la durata del film; ma in questo preciso momento Guadagnino ci concede delle probabili coordinate per “sentire” meglio.       .

La versione à la Liszt è dilatata, ampliata dall’esterno, complicata nella forma dando la sensazione di non badare troppo al contenuto; così fa anche l’ambientazione del film che ci narra di un’Italia del 1983 contraddittoria: gli strascichi del fascismo in provincia, i paesaggi dipinti in cui i protagonisti si rincorrono (Renoir), il governo Craxi e tutto il corredo delle opinioni lanciate lì, mentre si pranza, tra una riflessione sulla differenza tra cinema e realtà e la morte di Buñuel. Qui il tempo stesso è dilatato fino all’inverosimile, non si è mai consci del passare dei giorni, le ore si intersecano solo per far sì che le “cose” succedano. È l’affresco di una bella estate degli anni ’80, con annessi flirt e balli spensierati, persino la prima volta del giovane protagonista accade all’esterno, nella natura, all’aperto di un mondo più semplice da comprendere.

Chiamami col tuo nome 2

Busoni trascrisse il Capriccio di Bach adattandolo per pianoforte, la versione di Elio però non è ancora quella del compositore italiano ma ancora una sua rivisitazione, come Busoni avrebbe suonato la versione à la Liszt. Le note abbondano, ingozzano lo spartito ampliandolo dall’interno, qui è il contenuto ad avere la meglio, come se ci fosse qualcosa di non detto che smania di essere spiegato. La casa in cui Elio e Oliver si conoscono è la perfetta sineddoche dei rapporti interpersonali che si consumano all’interno di essa. I due protagonisti hanno a che fare ognuno con persone che sono altro da loro (i genitori di Elio, la governante, le ragazze infatuate), rapportandosi a queste in maniera enigmatica, sfaccettata. La madre di Elio legge una favola tedesca in cui un cavaliere innamorato non riesce a parlare del suo amore, “è meglio parlare o morire?” chiede alla sua amata. A proferire parola più che gli umani è la casa stessa, con una porta che sbatte, lo zampillo della fontana, le finestre pronte ad essere sbirciate. Le stanze aperte sono teatro di episodi molto significativi: Elio annusa segretamente il costume di Oliver, si aggira per casa in cerca di tracce del suo desiderio sfamandosi di sensazioni e visioni. Il tempo qui è scandito dalla consuetudine di una colazione, della preparazione della cena, del bagno rinfrescante in giardino e quando Oliver non è presente, Elio si interroga sul tempo dell’Altro in un’ostinata bramosia della sua presenza.

Nella scena citata a far rimanere Oliver è la versione originale del Capriccio, con le prime due l’americano non va molto d’accordo e chiede espressamente al giovane pianista cosa abbia contro Bach, fa per andarsene ma a trattenerlo è Elio che suona infine la composizione del musicista tedesco. Il Capriccio è uno snocciolarsi di note melliflue, calme e armoniose; ristabilisce una certa tranquillità originaria ed essenziale. Il tempo torna in una dimensione comprensibile, familiare e introspettiva. La stanza comunicante che i due condividono è il proscenio del loro rapporto che si consuma, la telecamera non riprende ma spia, si intromette in quello che sta accadendo: non c’è mai qualcosa di “accaduto” ma quel qualcosa, in questi frangenti, accade mentre sta accadendo. Il tempo che domina non è più il tempo dell’altro quando l’altro non c’è, ma è un tempo condiviso in un continuo spendersi ed espandersi. All’interno della stanza Oliver non si chiede cosa sia giusto o sbagliato, la vergogna è relegata ai confini della porta chiusa; anche lo spettatore è più rilassato perché qui la naturalezza della carnalità prende il posto del dilemma morale, del rapportarsi all’alterità della casa e dell’esterno.

Chiamami col tuo nome 3

Queste tre dimensioni si rincorrono lungo tutto il film, in una foga di prevalere l’una sull’altra mostrando il tormento di una relazione difficile, non tanto per l’accettazione della propria omosessualità, ma proprio per le complicazioni che un rapporto così profondo porta con sé. Le tre nature diverse del tempo fanno sì che queste difficoltà emergano in un tumulto di sensazioni contraddittorie annullando financo il senso critico: non è chiaro chi nella vicenda sia la vittima e chi il carnefice, ma ci si lascia avvolgere da questo racconto e si rinuncia ad ogni giudizio morale o di valore. Guadagnino ci narra quello che Beckett chiama “il benedetto tempo dell’azzurro”, Elio e Oliver vogliono che l’altro gli racconti una storia, la storia di quando il mondo era azzurro e non nero. L’amore è proprio questo: che ci venga raccontato il benedetto tempo dell’azzurro, ma a volte la vittima se ne va e il carnefice riprende a trascinarsi da solo nell’oscurità. Ma ha qualcosa di nuovo, ha il racconto del benedetto tempo dell’azzurro.

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  • Giovanni Barberio (1990) studente di filosofia, appassionato di cinema, libri e montagna. Ha a cuore il movimento queer e la battaglia per i diritti civili, sempre aperto al confronto fruttuoso ma si stanca subito dei cliché e delle opinioni all’acqua di rose. Vive nel cuore della Sila insieme ai lupi ma si ciba solo di bacche e radici.

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