Autonomia
Alla fine degli anni ’90, una serie di leggi e decreti ha introdotto di fatto l’autonomia scolastica. Al di là delle scelte didattiche e della “liberalizzazione” degli interventi educativi e formativi – che ogni scuola deve organizzare per lo sviluppo dello studente – la novità più interessante è la trasformazione dell’istituzione scolastica in un sistema misto istituzione-azienda. Questa trasformazione si palesa nell’introduzione del Piano dell’Offerta Formativa, un documento che presenta l’organizzazione della scuola, ormai solo in parte ancorata alle direttive ministeriali, e che tradisce la vocazione aziendalista del sistema scolastico.
La verità è nella semantica ed il P.O.F. introduce la categoria economica nel mondo della scuola e nel microcosmo di ogni singola scuola. Da questo momento in poi, le scuole non sono complementari tra di loro ed unite nella formazione dei cittadini di domani, ma sono tra di loro in competizione, una contro l’altra. Una competizione che si fa sempre più feroce perché non è improntata su principi qualitativi ma su principi di economia: chi ha più iscritti sopravvive e prolifera, chi ha meno iscritti rischia la chiusura.
Tornando alla verità della semantica, è bene concentrarsi sul significato di offerta formativa, un significato ben più brutale di quanto si creda perché non si tratta di una diversa concezione della didattica ma di una vera e propria istituzionalizzazione del modello matematico “domanda e offerta” che domina – in economia – la determinazione del prezzo. In questo senso, è chiaro che tutto si riduce nella ricerca della domanda sulla base di una offerta formativa che è sempre più appiattita sulle esigenze della domanda, sui bisogni minimi di scolarizzazione e che tende a livellare la qualità dell’istruzione per produrre forza lavoro. Dall’inizio del 2000 in poi è stato tutto un percorso in discesa, con un abbassamento della qualità dell’insegnamento e un progressivo incremento di analfabetismo funzionale. L’autonomia scolastica – che è una autonomia organizzativa e gestionale – ha introdotto il concetto di competizione tra le scuole, con il risultato di un crollo generalizzato dell’importanza dell’istruzione nel nostro paese.
Le scuole italiane fanno a gara – con un non detto che si percepisce sotto strati di progetti, laboratori ed esperienze – per garantire al cliente l’esperienza più comoda e sicura, così da accaparrarsi un maggior numero di studenti.
Genitorialità
Il secondo anello della catena di montaggio sociale che crea i proletari e i sottoproletari di domani è la genitorialità. I genitori con figli in età scolare tendono ad essere dei narcisisti che crescono dei figli nel cui volto sono in grado di riconoscere il proprio successo. La funzione genitoriale contemporanea è una funzione di rimozione, un continuo tentativo di rimuovere ogni ostacolo che si ponga davanti ai figli ma che, allo stesso tempo, crea in quei figli soltanto disagio. Di ostacolo in ostacolo, di rimozione in rimozione, i ragazzi di oggi non sono in grado di sperimentare l’errore, l’inciampo, e sono proiettati nell’età adulta come un corpo aperto alle ferite. La funzione di rimozione è onnipervasiva: l’allenatore, la maestra, la materia, il carico di compiti, la mancanza di interrogazioni programmate, il modo in cui è insegnata la materia, il modo in cui si comporta l’insegnante, la scarsa empatia dell’insegnante, la scarsa capacità dell’insegnante di imporsi ecc.
Quando la funzione di rimozione non basta, ecco che subentra la giustificazione. I genitori adottano allora un atteggiamento diverso, ecco che sfoderano «quelle spallucce vittimiste dei tennisti italiani, che perdono sempre per colpa dell’arbitro, del vento, della sfortuna, del net, sempre per colpa di qualcuno, mai per colpa loro»[1]. Non è mai colpa dei figli, è sempre colpa di qualcun altro, dimostrando che la genitorialità oggi ha introiettato una sorta di giustificazionismo riferito ai figli, anche rispetto ai casi gravi che la cronaca ci consegna. La genitorialità oggi vive una crisi di identità enorme, le cui prime vittime sono, naturalmente, i ragazzi.
La funzione di rimozione e giustificazione, tuttavia, ha un suo senso. La cosa profondamente triste, per ciò che è riferito alla scuola, è che i genitori hanno ragione, o meglio, sono stati messi nelle condizioni di avere ragione. Hanno ragione nel senso che il sistema misto scuola-azienda non può mai o quasi mai dare torto ai suoi clienti, sarebbe come buttare fuori da un locale in crisi un cliente che non ha apprezzato un piatto e ne chiede un altro fatto in modo diverso. Semplicemente, bisogna dargli ragione. Nella scuola-azienda il cliente ha sempre ragione.
L’abbraccio tra questa aziendalizzazione del settore più importante della vita culturale e democratica del paese e la genitorialità come funzione di rimozione è mortale.
Smartphone
Il terzo elemento della catena di comando della scuola italiana è proprio lui, l’oscuro oggetto del desiderio, lo smartphone. In una intervista concessa a Repubblica nel 2017, Valeria Fedeli, all’epoca Ministro dell’istruzione, dell’università e della ricerca, interrogata a proposito dell’utilizzo del telefonino a scuola, ha detto: «È uno strumento che facilita l’apprendimento, una straordinaria opportunità che deve essere governata. Se lasci un ragazzo solo con un tablet in mano è probabile che non impari nulla, che s’imbatta in fake news e scopra il cyberbullismo. Questo vale anche a casa. Se guidato da un insegnante preparato, e da genitori consapevoli, quel ragazzo può imparare cose importanti attraverso un media che gli è familiare: internet. Quello che autorizzeremo non sarà un telefono con cui gli studenti si faranno i fatti loro, sarà un nuovo strumento didattico»[2].
Il punto, però, non è cosa può o non può fare un ragazzo con lo smartphone, ma cosa lo smartphone può fare di lui. Quello che non si è ancora compreso quando si parla di nuove tecnologie è lo spostamento irreversibile dall’agire all’essere agito. I ragazzi, ormai tutti nativi digitali, non sono in grado di agire con un telefonino, tablet o computer, ma sono questi dispositivi che agiscono i ragazzi; e questo discorso vale anche per chi nativo digitale non è, come ad esempio gli insegnanti. La scuola dovrebbe, al contrario, essere un’oasi di libertà dalla mobilitazione cognitiva totale della iperconnessione. Frasi come quelle della ministra Fedeli non denunciano soltanto una incapacità di profondità di pensiero nell’affrontare i temi, ma anche una incapacità – quella sì profonda – di comprendere i ragazzi. I ragazzi andrebbero liberati per cinque ore dalla schiavitù dello scorrimento delle pagine di Instagram, strappati alla fatica titanica dell’iperattività cerebrale, guidati ed obbligati alla concentrazione profonda e prolungata nel tempo.
Se c’è ancora spazio per l’insegnante a scuola, se ha ancora senso questa figura, bisogna comprendere che il compito principale in questa fase è educare alla libertà, liberare i ragazzi dalle gabbie digitali che nascondono la gabbia dell’ideologia dominante. Se ha ancora un senso la filosofia, forse dovrebbe riscoprire questa capacità di liberazione.
La scuola contemporanea, di cui i ragazzi sono l’elemento tragico, è intrappolata dentro la caverna di Platone, una caverna costruita dalle tecnostrutture di uno Stato che ha perso la sua funzione, da genitori che hanno tradito il significato reale del prendersi cura, da un non-corpo docente incapace di liberare sé stesso.
In questo mondo libero, l’unica ossessione di genitori, insegnanti, presidi dovrebbe essere questa: liberare, liberarsi.
[1] Citazione tratta dal film Aprile di Nanni Moretti (1998).
[2]http://www.repubblica.it/scuola/2017/09/12/news/la_svolta_della_ministra_smartphone_in_aula_dico_si_sono_un_aiuto_-175262917/
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