Quella di Deleuze è una filosofia dello specchio. Cosa significa, però, specchiarsi? A volte il riflesso restituito dalla superficie dello specchio ispira solo invidia, rabbia e furore narcisistico, poiché non ci si riconosce nell’immagine speculare: “Io è sempre un Altro”, insegna Rimbaud; io è qualcuno che non riuscirò mai a raggiungere, conferma Lacan. Ciò vuol dire che non si coincide mai con il proprio ideale: lo specchio delle brame ci ripete beffardamente che non siamo noi “i più belli del reame”.
La tentazione è allora quella di mandare in pezzi lo specchio. Nei casi più fortunati, nelle favole belle), lo specchio, invece, non finisce in frantumi – si prova piuttosto ad attraversarlo, come l’Alice di Carroll. La conseguenza del “passaggio attraverso” è la liberazione di un doppio incorporeo dalla pellicola superficiale dello specchio.
Un recente esempio cinematografico di doppio spettrale, o, se si preferisce, di fantasma virtuale, è la Joi di Blade Runner 2049, film del 2017 di Denis Villeneuve, sequel del capolavoro di fantascienza del 1982 diretto da Ridley Scott e tratto da un romanzo (Do Androids Dream of Electric Sheep?, 1968) di Philip K. Dick, romanziere che forse più di tutti ha esplorato il tema dei doppi simulacrali.
Joi è un’intelligenza artificiale programmata per essere l’amante ideale, cioè il rispecchiamento narcisistico idealizzato dell’io (l’Ideal-Ich freudiano). Quando Joi desidera unirsi carnalmente all’agente K, attualizza le sue infinite immagini virtuali incarnandosi nella prostituta (replicante) Mariette, ma la sincronizzazione tra le due è un effetto di superficie: Joi aderisce a Mariette come una sorta di seconda pelle, una guaina olografica – un effluvio incorporeo, appunto. Joi è il virtuale capace di esprimere infinite versioni, mentre Mariette è la sua attualizzazione, il corpo concatenato e macchinico in cui Joi si esprime.
Siamo nel secolo deleuziano, anno 2049.
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