«Le valute virtuali, note soprattutto come bitcoin,
hanno catturato l’immaginazione di alcuni,
cancellato la paura di altri
e confuso il resto di noi».
(Thomas Carper)
Ci sono invenzioni. E Invenzioni. Alcune destinate a cambiare il corso della storia, un po’ come certe battaglie.
Il decennio tra il 2000 e il 2009 ha generato novità di portata epocale.
Ma procediamo con ordine…
Correva l’anno 2004. Da una parte, due gemelli, Cameron e Tyler Winklevoss, col chiodo fisso dei social network, dall’altra, Mark Zuckerberg, con l’ambizione di portare internet ovunque. I primi ideavano la realizzazione del social network Harvardconnection (una piattaforma in grado di connettere gli studenti di Harvard) con l’intenzione di coinvolgere il geniale Mark per la sua realizzazione, che però, dal canto suo, decideva di dare l’abbrivo a quello che oggi viene definito un vero e proprio “cyber-imperialismo”. Così, i fratelli Winklevoss intentarono una causa contro Zuckerberg accusandolo di aver rubato loro l’idea di Facebook proprio durante gli anni universitari ad Harvard. Il resto è di pubblico dominio: una controversia giudiziaria culminata in un risarcimento pari a 65 milioni di dollari nel 2008 poi confermato nel 2011; una holding, Facebook appunto, considerata uno dei più vasti e potenti imperi dell’era contemporanea. Per approfondire la storia all’origine del colosso di Menlo Park, vi rimando al film The Social Network (2010), di David Fincher.
Come dichiarato al New York Times, nel 2013 i due fratelli decisero di investire in bitcoin 11 dei 65 milioni di dollari vinti nella causa contro il numero uno di “Faccialibro”. Una somma considerevole che, all’epoca, era pari all’1% del totale della criptovaluta esistente. Verosimilmente un azzardo a quel tempo, ma la storia gli ha dato ragione: la crescita esponenziale del valore del singolo bitcoin li ha resi belli, famosi e ricchi (oggi il valore di un bitcoin è di oltre 12 mila euro, nelle settimane scorse giungendo ad oltrepassare anche la soglia dei 16 mila euro, contro i soli 102 euro per bitcoin ai tempi dell’acquisto da parte dei “Winklevoss twins”).
Bit e coin, moneta in forma di bit, una valuta digitale cifrata creata nel 2009 da un inventore sconosciuto, noto col nome fittizio di Satoshi Nakamoto, che sviluppò un progetto di cryptocurrency da lui stesso presentato su internet a fine 2008.
Detto altrimenti, il bitcoin è un succedaneo elettronico di spiccioli metallici e banconote, una sorta di contante digitale registrato su un dispositivo elettronico, come, per esempio, carta con microprocessore o una memoria di elaboratore, e utilizzato di solito per pagamenti (o investimenti) elettronici.
Con la b minuscola per indicare la moneta, con l’iniziale maiuscola per riferirsi al software open source progettato per rendere operante il protocollo di comunicazione e la rete peer-to-peer (abbreviato in p2p) che ne consente lo scambio, la valuta virtuale fonda il suo funzionamento su un sistema di pagamento con account, saldi e transazioni.
Il bitcoin, la species più evoluta e completa di contante digitale rientrante nel genus delle criptovalute, viene prodotto, immesso nel mercato virtuale e scambiato liberamente tra gli utenti del circuito monetario senza la necessità di ricorrere alle autorità centrali (come, per esempio, banche o governi), con l’effetto, tra gli altri, di rendere esiguo il costo delle commissioni per il trasferimento della criptomoneta.
Ma come funziona in concreto la transazione virtuale per mezzo della rete informatica “paritaria”?
L’utilizzatore di bitcoin possiede un portafoglio virtuale (il c.d. e-wallet), previamente installato sui dispositivi elettronici personali (fissi o mobili), direttamente collegato alla blockchain, un registro contabile aggiornato in tempo reale delle transazioni eseguite dagli utenti del circuito Bitcoin.
Attraverso il network peer-to-peer (architettura telematica in cui tutti i computer connessi sono in posizione paritaria, svolgendo gli stessi la doppia funzione di client e di server), un client (il computer che vuole il servizio) richiede una transazione, che viene trasmessa alla rete p2p per la validazione; una volta verificata, l’operazione viene rese permanente e inalterabile, e la transazione può così ritenersi completata.
Una transazione è un file che dice «Tizio dà X Bitcoin a Caio» e viene firmato dalla chiave privata di Tizio. Dopo la firma, la transazione viene trasmessa in rete e inviata da un peer a ogni altro peer. Dunque, il trasferimento di bitcoin diviene noto a tutti i nodi della rete p2p, ed è la rete stessa a convalidare la transazione, che poi confluirà in uno storico dei “movimenti” di criptovaluta. Questa è la tecnologia p2p di base collegata alla moneta virtuale. Per inciso, si fa notare come la moneta virtuale non vada confusa con la moneta elettronica (o con altri strumenti similari), dal momento che quest’ultima è sganciata dall’autorità centrale, e quindi si caratterizza per una circolazione libera da qualunque forma di intermediazione bancaria.
Un altro aspetto da rimarcare è che, dal punto di vista giuridico, il trasferimento di bitcoin deve ritenersi un’attività lecita: le parti sono libere di contrattare anche utilizzando somme riconducibili a valute non aventi corso legale. Sul punto l’Authority europea (BCE), nei Virtual currency schemes, annovera la criptovaluta tra quelle di tipo 3, ossia la considera alla stregua di qualsiasi moneta convertibile senza vincoli in valuta legale.
Ciò posto, la valuta virtuale non sempre è utilizzata con finalità solutoria. Anzi, potrebbe essere utilizzata come strumento di investimento. Infatti, nel leading case italiano, il Tribunale di Verona (cfr. sentenza del 24 gennaio 2017 n. 195) ha stabilito che «la compravendita di valute virtuali (ad es. di bitcoin), qualificabili alla stregua degli strumenti finanziari, è un’operazione definibile ad alto rischio per il risparmiatore, il che obbliga colui il quale ne pubblicizzi la vendita, in proprio o per conto terzi, ad informare preliminarmente l’utente interessato all’acquisto sui rischi connessi all’investimento (c.d. informativa precontrattuale), così come stabilito dagli artt. 67 e ss. del codice del consumo in tema di commercializzazione a distanza di servizi finanziari ai consumatori; in particolar modo, il promotore dell’operazione di vendita è tenuto all’applicazione delle disposizioni più rigorose previste dalla normativa di settore che disciplina l’offerta del servizio o del prodotto interessato». L’autorità giudiziaria ha così voluto ammonire da una parte i promoter di una piattaforma online di investimenti circa gli obblighi informativi da rispettare in favore del consumatore, dall’altra accrescere nell’investitore la consapevolezza circa i rischi connessi alle transazioni in valute virtuali.
Per uno sguardo sul futuro, oggi, siamo in grado di tracciare, a malapena, due strade: potrebbe rivelarsi una «bolla che rischia di finire in lacrime», come osservava nei giorni scorsi il premio Nobel per l’Economia del 2001, Joseph Stiglitz, oppure divenire «la regina delle criptovalute», con la possibilità di superare il tetto dei 50 mila dollari di valore entro il dicembre 2018, come ipotizzato da un misterioso gruppo di investitori e riportato di recente su Il Sole 24 Ore. Al momento resta da registrare il crollo del 40% del valore delle criptovalute tra il 21 e il 22 dicembre 2017. Le profezie di “Cassandra Stiglitz” stanno per avverarsi?
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