“Birdman“ di Alejandro González Iñárritu: la rapacità dell’ideale

Birdman

Che cosa può dirci il film Birdman a proposito del nostro rapporto con gli ideali, che siano le figure genitoriali, gli amori o le nostre aspirazioni più elevate?

L’ideale è quanto di più buono riusciamo a concepire. Le altezze sono il luogo d’elezione dell’oggetto buono: quest’ultimo, come afferma Deleuze, «è in altezza, si mantiene in altezza e non si lascia cadere, senza cambiare natura»[1]. L’istanza psichica di riferimento dell’oggetto buono è il Super-io, cioè un conglomerato degli aspetti frustranti dell’oggetto interno (ad esempio, la madre assente interiorizzata) e dell’oggetto buono gratificante e onnipotente (la madre che allatta), con cui il bambino si identifica narcisisticamente nella prima infanzia (fase dello specchio).

L’oggetto buono è considerato da Deleuze come completo in quanto buono, capace di manifestare «la più viva crudeltà come pure amore e protezione»[2]. Un amore ideale, elevato, al contempo terribile e benevolo, un rapace delle altezze che lotta con le “bestie selvagge” delle profondità, col caos delle nostre pulsioni. La metafora ornitologica deleuziana si ritrova in uno dei film più riusciti di Alejandro González Iñárritu. In Birdman (2014), Riggan Thomson è una star decaduta, che cerca di rifarsi una verginità allontanandosi dalla figura del supereroe che lo ha reso celebre, appunto Birdman. Anche per questo, mette in scena a Broadway uno spettacolo teatrale tratto da un testo di Raymond Carver. Il personaggio di Birdman, tuttavia, risuona nella sua testa come un Super-io persecutorio che lo sprona a ritornare ai blockbuster.

Thomson, oltre che rivaleggiare con l’attore “perfetto” Mike Shiner, combatte con le bestie delle profondità e viene “salvato” dalle altezze persecutorie e idealizzate, ossia dall’oggetto buono Birdman. Meravigliosa la scena finale in cui la figlia di Riggan, Sam, entrata nella stanza di ospedale in cui è ricoverato il padre dopo il tentativo di suicidio durante lo spettacolo, non trovandolo all’interno, si affaccia alla finestra: Sam dapprima lancia un’occhiata verso la strada in basso, poi solleva lo sguardo verso il cielo, riservando allo spettatore un ineffabile sorriso.

Thomson mostra appieno il contrasto tra attore della vita e attore della rappresentazione, tra simulacri hollywoodiani e idoli di Broadway. Alla fine della vicenda, l’attore si confonde con l’eroe, dissimulandosi nel supereroe Birdman, personaggio interpretato da Thomson negli anni ’90 e rimastogli “incollato” addosso. L’arte della dissimulazione si rivela appieno quando “finge di fingere” di spararsi, sostituendo la pistola giocattolo con una vera durante l’ultimo atto della rappresentazione.

L’uccello “Birdman” è spietato ma anche amorevole, esso infligge tante ferite quante ne riceve. Nella dialettica tra Es e Super-io, ad “andarci di mezzo” è l’io, che può far lega ora con l’uno ora con l’altro, e nel suo identificarsi con l’oggetto buono ne scopre la natura sfuggente, lo trova in quanto ritrovato, poiché esso è sempre fondamentalmente perduto, è oggetto di una nostalgia. La nostalgia di Thomson per la carriera teatrale soddisfacente mai avuta ma sempre vagheggiata.

[1] G. Deleuze, Logica del senso, Feltrinelli, Milano 2009, p. 168.

[2] Ibidem.

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  • Nato a Reggio Calabria, si è formato nell’area dello Stretto, coronando la sua formazione con un Ph.D. in Metodologie della Filosofia presso l’Università di Messina. Pop-filosofo di osservanza deleuziana, si occupa di estetica, psicoanalisi e filosofia della cultura di massa, con diverse pubblicazioni al suo attivo. Fa parte del comitato editoriale della rivista internazionale Mutual Images.

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