“Annientamento”, l’Area X tra letteratura e cinema

La fantascienza è forse il continente letterario più complesso da esplorare, tanto sul piano narrativo e introspettivo quanto linguistico. Il suo fascino incontra spesso resistenze, ma coloro che si ritrovano nelle sue spire ne restano avvinti. Ciò che la rende così peculiarmente interessante è forse la possibilità di esplorare l’uomo, soltanto l’uomo, lanciato ai limiti estremi dello spazio e del tempo. A conti fatti, navi spaziali, marchingegni futuristici, forme di vita aliena o artificiale, distanze siderali altro non sono che il pretesto per setacciare quello che resta l’ecosistema più minaccioso e incomprensibile di tutti: l’interiorità umana, con le sue contraddizioni, la sua bestialità coimplicata al raziocinio. Se per un lungo periodo la fantascienza era rimasta a uso e consumo di una fetta sottile di pubblico, gli ultimi anni ne hanno invece segnato un’autentica rinascita, letteraria e cinematografica.

Ultimo esempio dell’attuale primavera del genere è la ristampa in un unico volume per i tipi di Einaudi della Trilogia dell’Area X, di Jeff VanderMeer, precedentemente uscita in capitoli distinti: Annientamento, Autorità, Accettazione. Proprio dal primo libro della Trilogia, Alex Garland ha tratto l’omonimo film, distribuito da Netflix il 12 marzo.

Una volta venuta a patti con l’impossibilità di visionare la pellicola in una sala cinematografica, pellicola “troppo poco fruibile dal grande pubblico” a detta dei distributori, ho cercato lo schermo più grande che avevo a casa e inibito ogni fonte di luce nel tentativo di ricostruire quanto più possibile un’esperienza cinematografica. Finiti i titoli di coda sono rimasta a lungo a pensare se mi fosse possibile scrivere di quanto avevo appena visto: non perché il film sia ostico come è stato fatto credere, piuttosto perché ho idea che la sua forza sia proprio quella sorta di irrinunciabile ineffabilità che si avverte in tutta la storia. Ho quindi deciso di accantonare per il momento una seconda visione “razionalizzante” del film, per buttare giù quelle che sono state le mie impressioni immediate.

La trama della Trilogia è sostanzialmente semplice: l’Area X è un territorio dove un fenomeno di origine sconosciuta, un “bagliore”, trasforma la materia e continua a espandere i propri confini. Numerose spedizioni si sono avventurate al suo interno, sotto la guida dell’agenzia governativa nota come Southern Reach, per non fare ritorno o, peggio, rientrando in uno stato peggiore della morte. Il racconto segue le tracce della dodicesima spedizione, composta di sole scienziate che non si conoscono tra loro (quattro nel libro, cinque nel film). Quel che le protagoniste troveranno all’interno dell’Area metterà a dura prova la loro stessa individualità, rischiando appunto di inverare quello che a chiunque apparirebbe il massimo dell’orrore: la nientificazione di sé, l’annientamento della propria singolarità.

Le splendide copertine della Trilogia dell’Area X realizzate da LRNZ

I romanzi di VanderMeer sono a parer mio difficilissimi da trasporre su schermo: profondamente concettuali, la loro forza è tutta nella descrizione, nel linguaggio fluido e mutevole come il mondo stesso che raccontano. I personaggi cartacei (fatta eccezione, forse, per la protagonista) sono abbozzati, nascosti ma non per questo piatti e restano addirittura anonimi perché tutta la potenza della storia consiste proprio nel gettare il lettore in pasto alle invenzioni più improbabili e poetiche senza la minima remora o spiegazione. Attenzione: la Trilogia non è un’opera ineccepibile. In alcuni momenti si incarta su se stessa e non tutte le trovate dell’autore risultano ugualmente efficaci, eppure è attraversata da un profondo magnetismo che rende impossibile al lettore smettere di voltare le pagine. Chi va alla ricerca di un romanzo che risolva i suoi misteri in un finale illuminante rimarrà però deluso dalla Trilogia. L’opera procede più per sensazioni che per spiegazioni: le parole non vengono usate per esplicitare ma per suggestionare il lettore.

Alex Garland, da regista e sceneggiatore brillante quale ha già dimostrato di essere con l’ottimo Ex Machina, non traspone fedelmente il romanzo ma, partendo dalle stesse premesse, ne rimodella la vicenda, ridefinendone i contorni, i personaggi, l’epilogo. Il film acquisisce così un fascino non inferiore a quello esercitato dal libro e riesce a mantenerlo proprio perché comprende che per funzionare ha bisogno di essere diverso. Del materiale originale Garland accoglie soprattutto la volontà di non fornire un racconto lineare, né tantomeno fare sconti allo spettatore. Né Garland né VanderMeer si rivolgono a fruitori passivi, desiderosi di essere solo intrattenuti da sangue e creature mostruose; vogliono piuttosto costruire un dialogo con il loro pubblico. Vogliono che ciascuno accetti di lasciarsi rimescolare da ciò che sta vedendo come accade ai protagonisti della vicenda: le immagini di Garland, come le parole di VanderMeer, non sono schede illustrative ma suggestioni emotive, viscerali, dalle quali dobbiamo lasciarci toccare, pena la mancata esperienza del film e lo spreco di due ore della nostra vita.

Il cast è ricco di volti noti e nomi importanti, tra i quali spicca la sempre splendida Natalie Portman, credibilissima nella scelta di attuare una recitazione scarna, sottraente e allo stesso tempo, in qualche modo, toccante. Le musiche accompagnano ottimamente il crescendo della vicenda, mantenendosi in sordina per la prima parte ed esplodendo nella scena più visionaria del finale.

Come la Trilogia cartacea, anche Annientamento non è un film privo di difetti: non tutti i tempi sono gestiti nel migliore dei modi, non tutti i personaggi riescono ad avere lo stesso livello di caratterizzazione, non tutte le scelte visive e stilistiche sono supportate da una CGI efficace. L’ultimo punto non è però necessariamente un male: i paesaggi onirici in cui le protagoniste si muovono risultano estremamente evocativi proprio per il loro non voler essere realistici a tutti i costi. Anche l’apparente lentezza della prima parte del film non fa che accrescere l’effetto straniante della narrazione e rende di maggiore impatto le scene di matrice orrorifica che non mancano di costellarne alcuni dei punti salienti. Garland ha il merito di confezionare un film chiaro nei suoi intenti, dall’atmosfera precisa, a scapito di coloro che hanno cercato di ammansirlo e renderlo più facilmente assimilabile. Il regista sa benissimo a quale pubblico puntare e qual è la storia che vuole raccontare: che preferisca non esplicitarla è una scelta consapevole, mirata e, in un’epoca cinematografica in cui lo spettatore tende ad essere imboccato da spiegoni spesso imbarazzanti, anche nobile.

Scegliere di far ragionare il proprio pubblico non significa privarlo del divertimento ma regalargli la possibilità di partecipare in modo attivo alla visione. I sottotesti della pellicola sono molteplici: dall’evidente parallelismo con il cancro, al tema dell’elaborazione del lutto, ai diversi modi di fronteggiare il cambiamento e l’ignoto, all’intimo rapporto che lega distruzione e creazione, passando per la tematica del doppio. Non mancano poi riferimenti più o meno espliciti a grandi classici del genere, da Lovecraft e Lem in letteratura, alla psichedelia filmica dell’Odissea di Kubrick, e ancora all’orrore anatomico de La cosa di Carpenter. La pellicola di Garland si comporta come l’Area X stessa: rifrange le sensazioni e i pensieri dello spettatore, aprendo la strada a miriadi di interpretazioni diverse, tutte giuste proprio perché composte, mescolate e ricombinate da ciascuno al momento della visione.

Annientamento non è, come già ribadito, un film perfetto, né un capolavoro. È però un onesto racconto fantascientifico, che cerca ardentemente, come le disorientate protagoniste, di riconoscere un sentiero nelle viscere vive e pulsanti del cosmo-uomo.

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  • Nata a Messina nel 1990, attualmente vive a Roma, dove cerca di capire cosa fare della sua esistenza. Laureata in Filosofia Contemporanea, appassionata di letteratura e cinema, con una predilezione particolare per la fantascienza, ha deciso di scrivere su Suddiario per smettere finalmente di ammorbare i suoi cari.

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