Alla ricerca di Huckleberry Finn: Mark Twain letto da Azar Nafisi

Huck Finn

Il libro della scrittrice iraniana Azar Nafisi, La Repubblica dell’immaginazione, è senza dubbio una delle letture più belle che abbia fatto nell’ultimo periodo, non soltanto per la bellezza della scrittura, ma anche e soprattutto perché mi ha permesso di aprire nuovi orizzonti letterari e mi ha fatto riscoprire autori e opere che avevo abbandonato all’adolescenza, quando non all’infanzia. L’analisi che Nafisi fa di Le avventure di Huckleberry Finn di Mark Twain è interessante non soltanto per farci comprendere il senso dell’opera dello scrittore statunitense, per l’importanza di Huckleberry Finn nel contesto degli Stati Uniti a cavallo tra XIX e XX secolo, ma riempie di significato il nostro presente, il presente della realtà che ci circonda adesso, in quella che sembra l’ennesima “fine dei tempi”.

Dopo aver letto il libro di Nafisi — e dopo aver riletto Le avventure di Huckleberry Finn — mi sembra di essere finalmente riuscito ad individuare il male che sta facendo marcire, per usare il linguaggio brutale e onesto di Huck, la nostra società. Da un po’ di tempo ho la sensazione che qualcosa intorno a me non torni, che ci sia qualcosa di profondamente sbagliato persino nelle persone che fanno tutto come andrebbe fatto, la sensazione che il problema sia talmente radicato e radicale da essere persino di difficile individuazione. Insomma, è già difficile comprendere che c’è un problema, figuriamoci definire qual è. Leggere Twain significa comprendere appieno il senso e l’entità del problema. Scrive Nafisi: «Tutta la storia [di Huckleberry Finn] prende forma attorno a un tema principale che Mark Twain ha espresso benissimo in un appunto su un taccuino del 1895: Huck Finn è “un mio libro”, dice, “dove un cuore intatto e una coscienza deformata entrano in collisione, e la coscienza viene sconfitta”»[1].

Ecco, il nostro problema è proprio quella coscienza deformata. La nostra coscienza sociale (e di riflesso anche individuale) è una coscienza deformata. Chi ha una coscienza deformata non sempre riesce ad accorgersene, continua a vivere secondo quello che crede sia il modo giusto di vivere e, se per la coscienza deformata di un americano di fine Ottocento è giusto avere uno schiavo di colore ed è sbagliato, persino peccaminoso, pensare, come fa Huck, che il nero Jim possa essere un buon amico e che abbia diritto alla sua libertà, per il nostro mondo libero, per l’Occidente dei diritti, è normale costruire muri per respingere i migranti che scappano dalla guerra, è normale discriminare in base alla religione, è giusto pensare al quieto vivere della propria città e dei propri spazi invece che rispondere all’appello silenzioso delle morti nel Mediterraneo. È normale disprezzare ciò che è diverso, ciò che è altro da me. Mi viene in mente una celebre frase di Malcolm X riferita ai media: «Se non state attenti, i media vi faranno odiare le persone che vengono oppresse e amare quelle che opprimono». Forse è la nostra coscienza collettiva, quella coscienza deformata, a farci odiare gli oppressi e amare gli oppressori, una coscienza di cui anche i media fanno parte ma che, in fondo, non sono loro a strutturare.

La coscienza deformata, con il suo portato di inesorabilità, invade le riflessioni di Huck quasi come un rimorso, come una colpa: «Jim diceva che essere così vicino alla libertà lo faceva tremare e si sentiva la febbre. Ma te lo dico mi sentivo la febbre e tremavo anch’io a sentirlo, perché in testa ha cominciato a farsi strada il pensiero che lui stava per diventare libero. E di chi era la colpa di tutto questo? Be’, mia. Non riuscivo a togliermelo dalla coscienza, non c’era verso. Ha cominciato ad assillarmi a tal punto che non riuscivo a riposare; non potevo starmene fermo in un posto. Non mi era mai passato per la testa di questa cosa che stavo facendo. Ma ora sì, e non voleva andarsene, e mi bruciava sempre di più. Ho cercato di convincermi che non era colpa mia, visto che non ero stato io a farlo scappare dal suo legittimo proprietario, ma non serviva a niente, ogni volta la coscienza si alzava e attaccava la solfa: “Ma lo sapevi bene che scappava verso la libertà, e potevi benissimo andare a riva a dirlo a qualcuno”. Che ti devo dire, non riuscivo a levarmi quel pensiero di testa. E continuava a farmi male».

La coscienza deformata pretende che Huck rientri nei ranghi, che denunci Jim il fuggiasco, che risponda alla propria realtà, una realtà in cui la schiavitù è sacrosanta: «La mia coscienza è tornata all’attacco, più bruciante di prima, finché alla fine non ci ho detto: “Fidati di me, non è ancora troppo tardi, all’alba andrò a riva e dirò tutto”. Mi sono sentito all’istante più tranquillo e felice, leggero come una piuma. Tutti i problemi erano svaniti».

La coscienza tenta di uniformare Huck e si placa soltanto quando Huck risponde alla sua chiamata. Ma è proprio a questo punto, quando la coscienza deformata sembra avere incardinato il ribelle Huck, che si manifesta il conflitto. I tentativi di normalizzazione della coscienza deformata entrano in conflitto con il cuore intatto di Huck: «Mi sono messo a scrutare in cerca di una luce, e canticchiavo tra me e me. Dopo un po’ ne ho vista una. Jim ha gridato:

– Siamo salvi, Huck, siamo salvi! Ti rendi conto, quella è finalmente Cairo, lo sapevo!

Ho detto:

– Prendo la canoa e vado a vedere, Jim. Magari non lo è.

È saltato su e ha preparato la canoa, mettendoci sul fondo il suo giaccone per sedermici, e mi ha dato la pagaia. E mentre mi allontanavo ha detto:

– Fra poco urlerò dalla gioia e dirò che è tutto merito di Huck. Sono libero e non sarei mai stato libero se non fosse stato per Huck. Tutto merito suo, Jim non vi dimenticherà mai, Huck. Siete il mio migliore amico. Anzi, siete l’unico amico che io ho mai avuto.

Stavo remando a più non posso, tutto sudato per andare a denunciarlo, ma quando ha detto questa cosa, mi è sembrato come se mi toglievano la forza. Allora sono andato piano, e non ero sicuro se ero contento di stare andando oppure no. Quand’ero a cinquanta iarde, Jim ha detto: – Eccolo lì, il caro vecchio Huck, l’unico signore bianco che ha mantenuto la parola con il vecchio Jim.

Be’, ora sì che stavo male. Ma mi sono detto: devo farlo, non c’è altra scelta».

Questo conflitto si risolve in Huck con la vittoria del “cuore intatto”, che disconosce la coscienza deformata per strutturare una vera coscienza. In pochi istanti, il cuore del ribelle ha la meglio. Forse nessun altro romanzo è capace di ricordarci così bene che ribellarsi è giusto. Huckleberry Finn è una storia che commuove e che libera: «Proprio in quel momento, ecco arrivare una barchetta con dentro due uomini, armati di fucile; quando si sono fermati, mi sono fermato anch’io. Uno di loro ha detto:

– Che cosa c’è laggiù?

– Un pezzo di zattera – ho risposto.

– È tua?

– Sissignore.

– C’è qualcuno su?

– Solo una persona, signore.

– Senti, stanotte sono scappati cinque negri, oltre la punta dell’ansa. Questo qui è bianco o nero?

Non ho risposto subito. Ho cercato, ma non trovavo le parole. Ho cercato, per un paio di secondi, di sforzarmi di parlare, ma non avevo il coraggio, anzi me la facevo proprio sotto. Mi sentivo così debole, quindi ho smesso di provarci, mi sono ripreso e ho detto:

– Bianco».

Il cinico richiamo della coscienza deformata è riconoscibile anche nella nostra vita quotidiana. Sembra quasi che sia una sorta di bussola interiore (e deteriore) che definisce il modus vivendi, trasformandolo in una modalità crudele di intendere la vita nella società. La coscienza deformata è la guida perversa della società che ha creato il grande istituto della corruzione, la negoziazione al ribasso della vita, l’ormai immutabile capovolgimento tra diritti e favori. È il modello cui tutti, prima o poi, devono adeguarsi o si sono adeguati. Ma una volta insozzato, il cuore smette di essere puro e intatto. Quando permetti alla coscienza deformata di entrare dentro di te, è molto difficile riuscire a cercare ancora il cuore puro; quando alzi un muro, è molto difficile abbatterlo.

Forse leggere Nafisi e rileggere Twain mi ha cambiato, nel senso che la loro diagnosi mi sembra ricevere prove empiriche dovunque; ovunque volgo lo sguardo, vedo questa coscienza deformata agire, persino dentro di me. Il problema è trovare un cuore intatto che entri in collisione con questa coscienza deformata, il problema è trovare Huck Finn.

[1] A. Nafisi, La Repubblica dell’immaginazione [2014], tr. di M. Gini, Adelphi, Milano 2015, p. 75.

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  • Carmelo Rosace è nato e vive a Reggio Calabria, dove lavora come insegnante. Ha studiato filosofia all’Università degli Studi di Messina dove nel 2016 ha conseguito il dottorato di ricerca in Metodologie della filosofia.

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